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Secondo l’anagrafe dell’UCEI, alla fine del 2014 gli iscritti alle comunità ebraiche erano 23.901. Esattamente 50 anni prima, alla fine del 1964, il numero degli iscritti era 29.184. La diminuzione complessiva è stata di 5.283 iscritti, pari al 18%. Vi è chi esprime preoccupazione per queste tendenze demografiche che sono in realtà molto più profonde se si considera che negli ultimi 50 anni sono immigrati in Italia almeno 5.000 ebrei che avrebbero dovuto far crescere la popolazione ebraica. La perdita reale è quindi di oltre 10.000. Nella sola comunità di Roma si è avuto un aumento dell’11%, nel complesso di tutte le altre comunità una perdita del 38%. Ci si chiede dunque: che fare?
Le alternative identitarie possibili oggi per un ebreo impegnato sono diverse e riconducibili a quattro vie principali: l’approfondimento di un’autentica cultura ebraica basata sullo studio delle fonti e tradotta con coerenza nella pratica di vita quotidiana; l’adesione a un’identità ebraica fondata sui presupposti delle correnti moderniste dell’ebraismo (conservatrice o riformata); la scelta di un’identità impegnata nell’arena della società civile alla luce di principi etici secolari ispirati dalle fonti ebraiche; e il trasferimento del centro della propria vita in Israele. Quest’ultima via però non è fine a se stessa e ripropone, all’interno dello Stato ebraico, la necessità di adottare un modello di vita ispirato a una delle tre vie precedenti. Non esiste un’assoluta incompatibilità fra queste diverse vie (che un poco rammentano quelle proposte fin dal 1924 al congresso giovanile ebraico di Livorno). È sempre possibile trovare vie intermedie capaci di integrare elementi delle diverse proposte in una sintesi che esprima la propria identità ebraica personale. E tutto questo tenendo sempre presente che la vera alternativa – oggi frequentemente praticata – è quella dell’indifferenza, dell’assenteismo, dell’abbandono.
Vi è però a volte una forte vena polemica nel dibattito tra i sostenitori di queste diverse scelte di vita. Una forma retorica molto diffusa è quella di proporre la propria alternativa preferita attraverso la contestazione, la riduzione ad assurdo, o la pretesa del fallimento di tutte le altre. In un recente scambio di vedute fra persone ben informate abbiamo sentito una persona molto autorevole sostenere la validità della prima della quattro scelte di vita ora elencate, attraverso giudizi negativi sulle alternative. Dunque, la Riforma non sarebbe capace di trasmettere elementi identitari ebraici che durino più di due o tre generazioni, e condurrebbe inevitabilmente alla perdita totale di ogni senso di appartenenza; mentre un milione di ebrei sarebbero emigrati da Israele solamente verso gli Stati Uniti, dimostrando così l’incapacità del progetto sionista di mantenere la propria popolazione e la propria identità. Ma è meglio un’identità ebraica diversa da quella che noi preferiamo oppure nessuna identità?
Sull’ultimo punto sollevato vorrei aggiungere ancora una piccola riflessione. Il dato del “milione” di emigranti israeliani è completamente infondato ed è in conflitto con tutte le fonti di dati provenienti sia da Israele sia dagli Stati Uniti e da altri paesi. L’emigrazione è un fatto reale, ed è condivisa da tutti i paesi di forte immigrazione, ma nel caso di Israele è contenuta entro limiti ben inferiori alla media. Una stima reale per gli Stati Uniti sarebbe attorno ai 200.000. Ma oltre al fatto che la grande maggioranza dei nuovi immigrati e dei nativi rimane in Israele, è importante sottolineare il ruolo che Israele ha svolto come fattore di sostegno e di rafforzamento dell’identità ebraica nel mondo: come centro propulsore della rinascita della lingua ebraica, come fonte di orgoglio, anche di preoccupazione, e comunque di solidarietà fra gli ebrei nel mondo, come centro di vita e di rinnovamento delle energie ebraiche a contatto con i luoghi storici e con quelli creati dal lavoro delle ultime generazioni. Se lo stato d’Israele non fosse esistito, dubito che dopo la seconda guerra mondiale avrebbero saputo continuare a esistere le comunità ebraiche negli Stati Uniti o anche in Italia come le conosciamo oggi. Nell’epoca di grande incertezza che si apre domani con l’insediamento del nuovo presidente americano, è utile abituarsi a pensare che l’ebraismo dispone di diversi modi di essere e di difendersi, e di diversi strumenti per attuarli. Sarebbe opportuno essere capaci di utilizzarli tutti senza esclusioni.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(19 gennaio 2017)