Torino – Disegni, Maestro del Novecento
È ancora in corso, oggi a Torino, il convegno rabbinico in onore del rav Dario Disegni in occasione dei cinquant’anni dalla sua scomparsa. Tanti i rabbini italiani intervenuti all’incontro, opportunità di studio, ma anche un momento per ricordare una delle più importanti figure dell’ebraismo italiano del secolo scorso.
Fiorentino, classe 1878 rabbino per molti anni a Verona, cappellano militare in zona di confine durante la prima guerra mondiale, una piccola parentesi all’estero tra Bucarest e per un anno nella Tripoli coloniale, poi rabbino capo a Torino sotto il fascismo, la guerra, il suo stoico, e forse testardo, rimanere al suo posto fino all’ultimo prima di nascondersi nell’astigiano, la perdita di una figlia ed una nipote per mano nazifascista ad Auschwitz, a lui il difficile compito della ricostruzione comunitaria del dopoguerra con il supporto all’Orfanotrofio Israelitico di Torino, la vicinanza alle famiglie uscite mutilate dalla Shoah. Negli ultimi anni del suo mandato nel capoluogo piemontese è stato anche direttore della scuola rabbinica Marguglies di Torino, che da dopo la sua morte porta anche il suo nome.
In pensione dal 1959, rimase comunque autorità importante all’interno della Comunità al fianco del suo successore, rav Sergio Sierra fino alla morte avvenuta nel gennaio del 1967, esattamente cinquant’anni fa. Commosso il ricordo della moglie del rabbino Sierra che racconta della stanchezza di rav Disegni nei suoi ultimi anni di mandato: “Ci teneva che fosse Sergio a sostituirlo. Per più di un anno ricordo le sue chiamate a mio marito a Roma per convincerlo a sostituirlo. Anche quando mio marito accettò non volle mai sedersi sullo scranno riservato al rabbino capo: la vera autorità morale era ancora lui. Tutti i suoi allievi della scuola, finita la funzione venivano da lui per ricevere una benedizione”. Va riconosciuto infatti che sotto la sua direzione il collegio rabbinico di Torino abbia vissuto il suo massimo prestigio internazionale. Non solo da tutta Italia, ma tanti anche gli studenti stranieri che il rabbino riusciva a portare in città dalla Grecia, dall’Etiopia, dalla Francia e dalla Germania. Tra i più famosi, rav Luciano Caro, rav Giuseppe Laras, rav Yossef Hadana (uno dei più importanti rabbini etiopi dei Beta Israel). Un commosso ricordo è anche quello di Moise Levi: “Fu lui che mi trovò a Milano e mi portò a Torino, al Collegio. Di lui ricordo soprattutto l’amore che vedevo nell’approcciarsi alla Torah. Dal suo esempio ho trovato lo stimolo a diventare un traduttore”. È il maskil chaym Magrisos a ricordarlo come “grande formatore di maestri. È venuto a prenderci personalmente alla stazione Porta Nuova. Nei giorni successivi consegno ad ognuno di noi, nuovi arrivati al collegio, un paio di tefillin, un Tanach ed una copia del suo siddor, personalmente dedicata e firmata. Era come un padre.”
Un rabbino che è stato anche in grado di diventare un punto di riferimento famigliare. Unanime il ricordo dei nipoti, Dario, Giulio ed Ariel: un uomo dall’aspetto burbero, incuteva timore per la sua stazza soprattutto a noi giovani, ma al contempo era uomo dolce, capace di dare affetto a tutti, in famiglia e nella comunità. Significativo il ricordo del vice presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il nipote Giulio Disegni che ricorda i mesi passati a studiare con lui in vista del suo bar mitzvah: “Poi, purtroppo mio nonno mancò pochi giorni prima di quel lieto evento. Stando insieme a lui riuscivo a comprenderne la straordinaria levatura culturale ed umana, ma solo dopo la sua morte capii davvero l’attaccamento che la gente della comunità provava per la sua figura”.
Suo il coordinamento dei lavori di quella che, ad oggi, resta la più moderna e completa traduzione del Tanach utilizzato ancora oggi in tutta Italia e sua è anche la redazione dei siddurim in uso nella Comunità ebraica di Torino.
“Inutile ricordarlo solo per il grande traduttore, il grande maestro che è stato – ricorda rav Luciano Caro – È grazie a lui se l’Italia ebraica ha avuto i giusti presupposti per superare il trauma della guerra. Mi dispiace che questo non sia stato ancora capito in pieno, i tempi, a cinquant’anni di distanza sembrano ancora non abbastanza maturi”.
Filippo Tedeschi
(22 gennaio 2017)