Qui Venezia – Armeni ed ebrei, memoria condivisa

20170122_165107Le voci di Gabriele Nissim, giornalista, saggista e storico, presidente di Gariwo – La foresta dei giusti, autore del saggio “La lettera a Hitler” per la parte ebraica, e di Antonia Arslan, scrittrice e saggista, autrice del bestseller “La Masseria delle Allodole”, per quella armena, nell’evento “La memoria condivisa. Voci dal mondo ebraico e armeno” svoltosi ieri sera all’Auditorium del Conservatorio di Musica Benedetto Marcello di Venezia alla presenza di Ermelinda Damiano, presidente del consiglio comunale di Venezia, Luca Volpato del consiglio D’Europa e Franco rossi, direttore del conservatorio.
Un incontro tra culture, moderato da Paolo Navarro Dina, giornalista del Gazzettino, esponente della Comunità ebraica di Venezia e Nadia Pasqual, comunicatrice esperta di cultura armena, accompagnato dalle musiche della tradizione klezmer e armena con Rouben Vitali al clarinetto e Claudio Fanton al duduk.
La memoria condivisa è un concetto chiave per affrontare le sfide di oggi. Condividere significa mantenere le proprie caratteristiche, la propria storia, nel rispetto assoluto delle diversità, riuscendo però a cogliere le analogie nella volontà di costituire quel modello di eliminazione totale di un popolo che oggi chiamiamo genocidio.

Una parola, genocidio, che non va usata a sproposito. Ci sono modalità che vennero applicate per la prima volta con gli armeni e poi ripetute contro gli ebrei con l’intento comune di eliminare totalmente una minoranza secondo un metodo scientifico. Concetto chiave di questo piano, figlio della filosofia tedesca ottocentesca, è la valorizzazione della volontà di potenza e dell’importanza di costruire la società secondo i parametri definiti da chi la governa. Non vi è spazio per il singolo, che viene ridotto a cellula infinitesimale di un ipotetico corpo della nazione. I capi dei Giovani Turchi trovarono nelle teorie nazionaliste di fine ottocento la giustificazione teorica al loro piano di sterminio e i tedeschi videro nell’impero ottomano la reale possibilità di applicare ciò che fino a quel momento era mero pensiero.

Non è un caso quindi che il termine genocidio venga formulato per la prima volta da una figura connessa incredibilmente con le due tragedie, Shoah e Medz Yeghern. Raphael Lemkin, ebreo polacco, studiò la tragedia armena già dal 1921 prima che in Germania prendesse piede l’odio antiebraico promosso dall’ideologia nazionalsocialista.
Lemkin capì fin da subito che nello sterminio degli armeni c’era un metodo, delle modalità ben definite e che tale modello poteva potenzialmente essere applicato anche al popolo ebraico. Unico superstite della sua famiglia, uccisa ad Auschwitz, approda negli Stati Uniti dove, ricevuta una cattedra, formula il concetto di genocidio come visione estrema di un occhio moderno sulle stragi del ‘900.

Il libro “Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno” è un altro esempio di questa particolare connessione tra ebrei e armeni. Racconta tra i tanti contributi del diplomatico Lewis Einstein e dei fratelli Aaronshon, che assistettero sulla strada della deportazione, allo sterminio e alle violenze inaudite inferte al popolo armeno e cercarono di divulgare notizie sul genocidio degli armeni. Storie di chi, con una sensibilità e una capacità di comprendere il proprio tempo, ha denunciato ciò che stava accadendo in seno all’impero Ottomano già all’inizio della prima guerra mondiale.

Campioni della memoria come lo scrittore tedesco Armin Wegner, un Giusto per entrambi i popoli, che ebbe il coraggio di prendere posizione contro i due genocidi. Un combattente solitario, che quando si trovò in Anatolia, come ufficiale sanitario nell’esercito tedesco, vide come nell’Impero Ottomano si stesse prospettando una guerra diversa dalle precedenti: il nemico non era alla frontiere, il nemico della nazione era il popolo armeno discriminato e deportato in marce forzate fino alla totale distruzione dello stesso nel deserto.

Wegner fu uno dei primi a denunciare, nel periodo tra le due guerre, le efferatezze compiute dai Giovani Turchi a scapito degli armeni nei deserti dell’Anatolia. Eludendo le ferree ordinanze e i divieti delle autorità turche e tedesche, riuscì a far giungere parte del materiale raccolto in Germania e negli Stati Uniti, nascondendo sotto la cintola le lastre fotografiche del genocidio armeno. All’indomani della serrata contro gli ebrei del 1933, Wegner indirizzò una lettera di protesta ad Adolf Hitler per i comportamenti antiebraici e inumani del regime. Per questo venne arrestato, torturato e incarcerato dalla Gestapo.

“Sì può sempre dire un sì o un no – ha ricordato Antonia Arslan – questo differenzia una persona normale da un Giusto e come esiste Yad Vashem, a parimenti è stato creato a Tsitsernakaberd, la collina delle rondini ad Erevan, un giardino dei giusti dove sono raccolte le storie di chi cercò di aiutare e di opporsi”.

La sfida per il futuro rimane da una parte la trasmissione della memoria, prevalentemente basata sulle voci testimoniali in lenta scomparsa, dall’altra sulla necessità di trovare le giuste modalità per intervenire sui nuovi genocidi: “Dopo gli armeni e la Shoah – ha spiegato Gabriele Nissim – abbiamo visto la Cambogia, il Ruanda, la Bosnia, il Darfur. La comunità internazionale non ha gli strumenti per bloccare un genocidio e sembra non ci sia la volontà politica di attuare le risoluzioni. Su questo piano sono fondamentali le voci di chi denuncia sul nascere le manifestazioni d’odio”.

Michael Calimani

(23 gennaio 2017)