Periscopio – Oltre la ritualità

lucreziCome ogni anno, la ricorrenza del Giorno della Memoria impone non soltanto di rapportarci con la tremenda realtà di ciò che è stato (con i connessi doveri di rendere testimonianza alle vittime, di tenere fermo il giudizio morale sui colpevoli, di onorare coloro che lottarono contro la tirannia, di elaborare, custodire e trasmettere un insegnamento per le future generazioni), ma anche con la diversa, problematica realtà dei nostri giorni (che solleva molteplici domande sulla stessa funzione della Memoria, sulla sua utilità, i suoi aspetti controversi, i sempre incombenti rischi di banalizzazione, ritualizzazione, svuotamento e inquinamento di significato). E, come già da molto tempo, la triste situazione del presente induce, ancora una volta, a chiedersi in che misura sia possibile, giusto, ammissibile collegare o tenere distinte le vittime di ieri da quelle – effettive o potenziali – di oggi, o di domani. La Memoria del passato va utilizzata come misura etica per il presente? O, così facendo, la si strumentalizza? E, se si vuole ricordare il passato per difendere chi è colpito o minacciato oggi, quali devono essere i soggetti colpiti o in pericolo a cui, specificamente, rivolgere la nostra attenzione? Ma, se si sceglie diversamente, è lecito commemorare le vittime di ieri mostrandosi indifferenti alle sorti di quelle di oggi, o di domani? Yehuda Bauer, grande storico della Shoah, in un’intervista rilasciata lo scorso settembre, ha ammonito: “Ora, naturalmente, amano gli ebrei. Soprattutto gli ebrei morti. Quelli che sono morti durante l’Olocausto sono meravigliosi, sono fantastici. Gli ebrei vivi sono un’altra cosa”. Parole che richiamano quelle pronunciate, in un articolo, intitolato Giro d’orizzonte sull’antisemitismo francese, pubblicato il 29 febbraio 1892 sulla Neue Freie Presse, da Theodor Herzl: “Qui li trattano affabilmente, specie da morti. Quando la loro splendida esistenza, per la quale erano stati oggetto di tanta invidia, si è felicemente conclusa, gli Judenmenschen non sono più discriminati in Francia; li seppelliscono accanto ai Christenmenschen, negli stessi cimiteri”.
Le celebrazioni di quest’anno, com’è noto, cadono nel trentesimo anniversario della tragica scomparsa di Primo Levi, e l’anno successivo alla morte di Elie Wiesel, ed è proprio alla figura e al messaggio di questi due grandi personaggi che saranno dedicate, tra le tante manifestazioni, quelle organizzate a Napoli, presso l’Università Federico II, il prossimo venerdì 27 gennaio, dal Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica. Come ho già avuto modo di notare, in altre occasioni, i messaggi lasciatici dai due testimoni, se accomunati come monito e forza morale, appaiono sostanzialmente diversi nel loro intimo significato. Primo Levi, uomo di scienza e razionalità, ebreo decisamente assimilato, con uno scarso senso della propria ebraicità (almeno fino all’esperienza dell’internamento) e una debole percezione del fenomeno dell’antisemitismo (al di là di quello nazifascista), ha cercato di interpretare l’accaduto come una sorta di inspiegabile oscuramento della ragione umana, le cui cause la stessa ragione avrebbe chiesto, invano, di poter comprendere. Ma, come egli stesso disse, comprendere è impossibile, e le modalità della sua morte, al di là degli scritti e dei libri lasciati, rappresentano la più eloquente testimonianza di quello che gli dovette apparire come una morte della parola, un fallimento della testimonianza. Wiesel, invece, uomo di fede, fortemente legato alla propria identità ebraica, cresciuto in una famiglia di salda religiosità, ben memore delle antiche, infinite sofferenze patite dal suo popolo, colloca “ebraicamente” il problema del senso e della inintellegibilità di Auschwitz all’interno dell’antica domanda di Giobbe, di quel “silenzio di Dio” che, già manifestatosi, tante volte, in passato, è parso ripresentarsi, il secolo scorso, nel più assoluto e definitivo dei modi.
Quel che è certo, a mio parere, è che entrambi i tentativi di lettura della Shoah rappresentano dei discorsi aperti, il cui significato cambia, di giorno in giorno, col mutare della disponibilità del mondo ad ascoltare e comprendere. E anche tutti i dubbi, reiteratamente sollevati, riguardo all’utilità della istituzionalizzazione della Memoria appaiono giustificati. Nel momento in cui diventa una sorta di religione civile, anche la Memoria, come tutte le religioni, non può non generare rifiuto, miscredenza, blasfemia.

Francesco Lucrezi, storico

(24 gennaio 2017)