Nella casa del pianista

Valerio FiandraNon so chi legga questi Esercizi, ma se ce ne fosse anche uno solo che apprezza la grande musica, bene: questo libro è per noi. Non so nemmeno se chi li legge è ancora alle prese con la questione Romanzo/Non Romanzo (troppa cattiva letteratura, e peggior cinema o televisione ci hanno condizionato, con quelle fascette o trailer “Tratto da una storia vera”), ma se abbiamo capito qualcosa della forza e del potere dell’arte, e della debolezza, dell’impotenza di tutto il resto, bene: questo romanzo non romanzo è per noi.
Roma, la cella di un carcere, primi mesi del 1976. Un giovanissimo pianista russo attende di sapere se la sua fuga dall’URSS avrà come esito la libertà o la fine. Scrive 12 pagine di diario, in cirillico naturalmente, tanto febbrili da dover procurare seri problemi a chi – 11 anni dopo, ad Amsterdam – ricevette l’incarico di tradurle. Youri Egorov è morto da pochi giorni, per eutanasia (oh, civile Olanda!), dopo aver combattuto e perso la sua lotta contro l’Aids. Da quelle 12 pagine – che l’autore olandese Jan Brokken aveva ricevuto dall’amico pianista con le sole parole “Per dopo” e l’esecuzione di un movimento da una sonata di Skrjabin – prende avvio la storia narrata in “Nella Casa del Pianista” (Iperborea, toccante e musicale traduzione di Claudia Di Palermo, Euro 18).
Sono quattrocentotrentadue pagine magistrali, in cui la precisione dei dettagli non disturba, ma amplifica il calore della narrazione: la vita e la carriera di Egorov ne sono il filo rosso – fra concerti/prove/registrazioni e cene/conversazioni/avventure -, ma c’è di più, c’è la rappresentazione della benedizione-maledizione che è l’esser toccati da una sensibilità straordinaria, incontenibile portatrice di gioia e estasi, e dei prezzi che costa a chi ne è interprete come a chi ne è spettatore da troppo vicino. Gli amici, gli amanti, la famiglia, le donne e gli uomini che sono stati irradiati dalla vita e dalla musica del pianista Youri Egorov sono altrettanti co-protagonisti di questo piccolo, ma forse nemmeno troppo, capolavoro.
L’arte di Brocken (che ha pubblicato anche un gioiello della letteratura di viaggio come “Anime Baltiche”, e il recente “Il Giardino dei Cosacchi” – sempre per Iperborea) sta nel riuscire a dar vita – in pochi ma precisi tratti – ai fatti e alle emozioni di coloro di cui scrive; e così bastano poche righe a rendere indimenticabile anche una figura fantasmatica come “la ragazza con i capelli neri e la spilla da balia sul labbro inferiore”.
L’altra ‘magia’ di Brokken è nel montaggio: i capitoli scivolano come canoe sul mare, indifferenti se è in tempesta (la sofferenza, il rischio, la tragedia), o liscio e solare (la bellezza, la gioia, l’amore, la musica). Il colpo di remo della sua scrittura quasi non lo vedi mentre lo leggi, e sei spinto avanti nelle pagine come fossi tu su quella barca. Potrei – anzi, l’ho fatto, ma è troppo lungo per venir pubblicato qui – continuare a citare, descrivere, commentare. Una sola parola non mi posso permettere il lusso, o il crimine, di non pronunciare: musica. Questo libro è anche un’appassionata quanto rigorosa dichiarazione d’amore per le note ben composte e adeguatamente eseguite, per chi ne è benefico portatore ma anche per noi, che fra loro troviamo pace e guerra, amore e disamore, vita e morte. Tutto il resto…è romanzo!

Valerio Fiandra

(26 gennaio 2017)