Società – Shoah, un debole memoria difettosa

Il 27 gennaio sarà di nuovo il Giorno della Memoria della Shoah, e di anno in anno devo rendermi conto che il lungo filo di quel gomitolo resta aggrovigliato e pieno di nodi che non sono stati sciolti. Come sia nato, lungamente discusso, tenacemente contraddetto, alla fine approvato dal Parlamento, il Giorno della Memoria italiano, è narrato dal libro dello storico americano Robert S.C. Gordon “The holocaust in Italian culture” (Stanford University Press, 2012). Questo libro, in cui è ricostruita, quasi giorno per giorno, la lunga strada della legge sul Giorno della Memoria, dal momento in cui è stato presentato la prima volta il testo, all’approvazione finale (quasi cinque anni dopo) fa notare tre aspetti della storia e della cultura italiana in cui questo evento si è compiuto. Il primo è che l’ Italia non si è mai voltata a rivedere e giudicare il suo periodo fascista e non ha mai avuto una sua Norimberga. E infatti, dice Gordon nel suo libro, l’Italia è l’unico Paese europeo che non abbia un monumento alla sua Resistenza. La conferma è il luogo più celebre del ricordo italiano di ciò che è accaduto tra il 1943 e il 1945, le Fosse Ardeatine, non è dedicato alla Resistenza. Sulla lapide, non c’è alcun accenno agli italiani ebrei selezionati per quella strage. E c’è una statua dedicata alle “tre età dell’uomo” (giovinezza, maturità, vecchiaia) come modo per indicare la diversità delle vittime, ma senza l’intento di ricordare il “chi è chi” di quella strage, prevalentemente strage di resistenti ebrei. Lo storico Gordon lo racconta con meraviglia e come modo di spiegare perché, nella prima stesura del mio testo di legge sul Giorno della Memoria (quando ero deputato alla Camera, dal 1996 al 2001) io avevo indicato la data del 16 ottobre, per non lasciar cadere nel vuoto del non ricordo l’evento inaudito della razzia di 1017 cittadini italiani ebrei trovati in casa quella notte del 1943 nel Ghetto di Roma (a 2 km dal Vaticano), arrestati, deportati, finiti ad Auschwitz e uccisi (quasi tutti) in quel campo di sterminio. È storia e memoria anche il silenzio italiano, religioso e civile, in quei giorni, e la scrupolosa collaborazione italiana per il luogo, le mappe, gli indirizzi, i nomi, la custodia dei prigionieri, in attesa dei treni della deportazione, senza cibo né acqua. Ma è storia e memoria anche il fatto che solo il racconto implacabile dei pochi che sono tornati (qualcuno ricorda il nome di una straordinaria donna romana di nome Spizzichino?) e il piccolo libro di un giovanissimo testimone scampato alla cattura e poi diventato grande scrittore (Giacomo De Benedetti) hanno fatto sapere ciò che è accaduto fra italiani in una situazione folle oltreché disumana, compiuta come incontrastato esercizio di un potere accettato. Un’altra ragione per essere grati a Gordon (che racconta anche episodi di aspra discussione avvenuta nell’aula della Camera), è di avere ricordato, per gli studi che verranno, il modo in cui ho difeso la legge contro la pretesa che fosse di ricordo, generale e generico, anche dei gulag, delle foibe, dei khmer rossi. La risposta è stata “La Shoah è un delitto italiano. Le leggi razziali sono italiane, la grande maggioranza dei cittadini italiani consegnati alla deportazione perché ebrei sono stati identificati e arrestati da italiani. Molti italiani hanno ricevuto il compenso pattuito di lire 5.000 per avere indicato alla polizia italiana o tedesca colleghi o vicini di casa ebrei da arrestare e deportare”. Ma va anche ricordato che, insieme alla Germania, l’Italia era allora (nell’immagine e nel peso politico) l’altra grande potenza d’Europa. Senza l’Italia, la Germania non avrebbe potuto, da sola, imporre le leggi razziali in tutti i Paesi occupati. E infatti la Spagna franchista e la Bulgaria fascista non hanno accettato discriminazioni per i loro cittadini ebrei, e la Germania non ha potuto toccarli. Perché la data è cambiata (nella seconda presentazione della legge) da 16 ottobre 1943 a 27 gennaio 1945, giorno dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz? Perché quella data (è il suggerimento di Tullia Zevi, allora presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane) va al di la dell’orrore italiano e aiuta a capire la visione folle di un mondo di discriminazione e genocidio che ci sarebbe ancora se fascismo e nazismo non fossero stati abbattuti. Quel mondo concentrazionario comprendeva la detenzione senza fine (ovvero l’eliminazione) dei militari italiani che avevano detto “no” alla collaborazione con nazismo e fascismo, dei resistenti e oppositori politici, dei rom (tanti) che ingiustamente non vengono mai ricordati e che patiscono ancora persecuzione. Devo allo storico Robert Gordon di avere ricordato che la “Legge che istituisce il Giorno della Memoria” sfida un’Italia che vorrebbe solo celebrarsi. La legge dice: non sempre, tutti. E dice anche che la Memoria serve a sapere che niente è finito una volta per sempre. Pensate ai migranti, all’idea di respingerli in mare o di abbandonarli nel deserto, come nuovo progetto europeo.

Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2017