…cultura

Definiamo innanzitutto cosa intendiamo per cultura. In termini generali, per lo più condivisibili, possiamo dar credito alla voce del Dizionario Treccani per cui cultura è fra l’altro “l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale”. In ebraico la si definisce Tarbùt.
E’ opinione comune che la cultura sia un elemento fondamentale del vivere umano, sia come singoli sia a livello di società. E’ inoltre noto che nei momenti di crisi il genere umano si rifugia proprio nella cultura. Non è un caso se nel ghetto di Varsavia i teatri e le sale musicali e di studio erano sempre affollati.
La minoranza ebraica, grazie al suo rapporto privilegiato e radicale con la parola scritta e con il suo commento, è sempre stata protagonista nella produzione e nella diffusione di cultura. L’espressione “popolo del libro” assume in questo senso un doppio significato (religioso e di pratica sociale), e nelle diverse aree geografiche in cui è presente una minoranza ebraica non desta alcuno stupore il fatto che nel mondo della cultura gli ebrei siano costantemente sovra-rappresentati.
Nonostante la sostanziale veridicità di questo assunto, la cultura (l’educazione culturale, la realizzazione di servizi culturali che dovrebbero essere non solo una attività normale delle comunità ebraiche, ma anche una loro vocazione specifica) non rappresenta in alcun modo un asset delle strategie di bilancio dell’ebraismo italiano sia a livello di piccole comunità, sia a livello di Unione. Attenzione: non è che si faccia poco. Al contrario, sono veramente sorprendenti nel numero e nella qualità le iniziative culturali in programma ogni anno a livello locale e nazionale. Ma la loro realizzazione è per lo più il frutto di iniziative estemporanee, sponsorizzazioni di eventi unici, attività volontaristiche. Poco si fa sul piano della programmazione, pochissime sono le risorse strutturali messe a disposizione. Si potrebbe fare molto di più e molto meglio se si prendessero in considerazione poche e semplici iniziative politiche, che però si scontrano con un assunto tanto falso quanto fortemente interiorizzato da quasi tutti i dirigenti politici e amministrativi delle comunità ebraiche italiane (malattia comune anche ai non ebrei, peraltro); l’idea, cioè, che “la cultura non rende”. Costa tenere aperta una biblioteca, riordinare un archivio e metterlo a disposizione del pubblico, costa organizzare una mostra o un ciclo di lezioni o una rassegna di cinema; costa formare un operatore culturale (insegnante, bibliotecario, restauratore, archivista…); forse costa meno aprire un museo (per lo meno vende dei biglietti), ma guai pensare che quel museo possa programmare due o tre anni di iniziative e finanziarle.
Le singole comunità in genere si dotano di un assessore alla cultura che ha come missione quella di realizzare iniziative a costo zero, prive o semiprive di un budget pensato nell’ottica di un investimento. L’Unione delle Comunità, d’altro canto, vive strutturalmente da decenni una diffusa confusione di ruoli che ne immobilizza e indebolisce l’efficacia proprio sul piano della programmazione culturale. Invece di gestire un settore unico, fondamentale e ben finanziato che chiameremmo genericamente assessorato alla cultura (da articolare al suo interno in sezioni tematiche), ecco che ci troviamo almeno due assessori (cultura e patrimonio culturale), una Fondazione per i Beni culturali (con mandato simile ai due assessorati, ma priva di fondi e non coordinata con il consiglio), un centro bibliografico (privo di comitato scientifico e utilizzato come luogo di cultura, ma senza una connessione programmatica con le altre unità), due o tre commissioni nel consiglio stesso (dotate di mini budget e con la missione di “fare qualcosa”, il che spesso si traduce in episodi di sovrapposizione con le iniziative proposte dagli altri enti). E si aggiungano pure il collegio rabbinico, la Rassegna Mensile di Israel, il corso di laurea e tutte le altre strutture che possono in qualche misura ascriversi al concetto di “fare cultura”. Si registra in sostanza una frammentarietà delle deleghe e degli obiettivi, un palese sotto finanziamento di tutti questi settori, una strutturale disattenzione alla concertazione delle attività con un evidente spreco delle già risicate risorse.
Non penso si tratti di mancanza di volontà, al contrario. Molti degli attori che animano queste iniziative vogliono fare e fanno moltissimo. Si tratta forse di un vago riflesso della più generale situazione italiana che soffre dei medesimi difetti. Ma è un terreno nel quale dal mondo ebraico ci si aspetterebbe maggiore attenzione strategica, il riconoscimento cioè che nella cultura l’ebraismo investe risorse, con l’intento di accrescere le competenze delle nuove generazioni e di offrire servizi alla società che ci si trova ad abitare. Un investimento anche economico, che non può che condurre a un ritorno di immagine e a un rafforzamento di legami che solo la cultura può mantenere saldi.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(27 gennaio 2017)