Ticketless – La casa dei Mortara
Ai suoi esordi questa rubrica dedicò un paio di pezzi alle case degli ebrei. Non le case quattro-cinquecentesche su cui lavorò il compianto Michele Luzzati, ma i focolari della ottocentesca religione domestica elogiata da Rosselli nel famoso discorso del 1924. Per effetto di quei miei lontani articoletti mi è giunta questa settimana una curiosa richiesta bibliografica da parte di chi sta lavorando alla sceneggiatura del film di Spielberg dedicato al “caso Mortara”. Richieste di aiuto bibliografico nel settore della judaica ne arrivano a iosa, ma questa è davvero curiosa. Quali potrebbero essere le caratteristiche di un interno ebraico a Bologna sul finire del secolo XIX? In che cosa esso si differenzia dai consueti interni borghesi che fanno da sfondo a mille foto di gruppo con signore e signori, pupi e pupetti in posa sorridente come Hector Aron Schmitz fidanzato a Trieste? Un grande scrittore ebreo francese Georges Perec ci ha insegnato che dal via vai di inquilini di un edificio si possono ricavare istruzioni per la vita. Sì, ma dove sta la differenza e che cosa consigliare ai miei gentili interlocutori? La casa Mortara non è Jurassic Park e nemmeno la dimora di ET. Ingrandire i quadri alle pareti, gli impolverati e gozzaniani soprammobili che si intravedono negli album di famiglia, i libri sugli scaffali che la moderna tecnologia consente di zoomare fino a leggerne il dorso?
Segnalavo allora – e di nuovo segnalerò – la casa di Lazzaro Padoa (1915-1991), il grande studioso delle comunità ebraiche di Scandiano e Reggio Emilia. La casa, mi spiegava l’amico Giuseppe Anceschi (pure lui ci ha lasciato l’anno scorso), editore della maggior parte degli studi di Lazzaro Padoa (disponibili tutti da Giuntina), era appoggiata al torrione della Rocca boiardesca. S’affaccia sull’attuale piazza Fiume, dove sfociano tre “contradelle” (via Frumentaria, via della Fontana e via del Forno). Per uno di quei singolari prodigi della storia ebraica italiana, la casa di Padoa è rimasta intatta e la si può comodamente visitare, come l’altra dimora che suggerirò, quella di Guido L. Luzzatto a Milano per gli arredi provenienti dalla bolognese famiglia Sanguineti, di carducciana memoria. A Scandiano ad accoglierci non c’è una Fondazione, ma un ristorante, il cui proprietario ha lasciato per nostra fortuna tutto com’era. Dalle finestre lo sguardo su una delle piazze emiliane più belle rende acuto il rimpianto per gli studi strepitosi di Padoa sugli antenati di Angelo F. Formiggini. Qualche sequenza del film di Spielberg si potrebbe girare lì senza beninteso fare réclame allo chef, ma con l’animo tranquillo al riparo da volgari cadute in un kitsch anacronistico.
Alberto Cavaglion
(1 febbraio 2017)