Nessun Luogo

Valerio FiandraMica facile scrivere un libro sul Nessun Luogo, il Nowhere che è Trieste secondo la decisiva, esatta definizione della città nel titolo del fortunato libro di Jan Morris (Trieste. O del Nessun Luogo – Saggiatore).
Mauro Covacich riesce dove altri maggiori e minori hanno più o meno fallito, perché non sistematizza né mette ordine: il Nessun Luogo ha fisica quantica, e il suo significato è sfuggente se lo si cerca di misurare, quanto è riconoscibile se lo si lascia esprimere. Il ‘meaning’ del titolo della Morris è infatti indicativo dell’inevitabile fallimento programmato della sua queste, mentre quello di Covacich, (La Città Interiore – La Nave di Teseo) è chiave musicale, è intonazione per un concerto per pianoforte e orchestra. E infatti l’autore, triestino ma non provinciale e dotato di appropriati mezzi letterario filosofici, e che è sia preda di vera inquietudine sia capace di devozione per la cura di se che è la scrittura, de-scrive. Per raccontare la confusione che sembra essere il Nessun Luogo, svela al lettore frammenti di biografia familiare, e li aggrega a testi e aneddoti riguardanti gli scrittori e gli artisti – celeberrimi o poco meno che ignoti – che hanno avuto a che fare con Trieste nelle sue svariate forme, apparenze, appartenenze, deviazioni e mascheramenti.
Il suo è infatti anche un libro di critica letteraria e culturale: con brevi ma efficaci divagazioni – note a margine, come da lezione Bazleniana – Covacich offre spunti e tesi talvolta originali su Quarantotti Gambini, Bibalo, Svevo, Saba, Joyce. Fino alle pagine impudiche e oneste su se stesso, in particolar modo in occasione del suo incontro-monologo con Coetzee.
Dalle vite normalmente eccezionali dei nonni e dei genitori, da quelle stranianti della sorella, di suo marito e famiglia; da quelle dei vicini di case; dagli amici che lo accompagnano nelle ricerche, e perfino da comparse come il Produttore, la Direttrice del Museo o L’Industriale, l’autore prende spunti, storie, gesti, parole e fatti. Li giustappone con abilità e mestiere, ma non li lega o assimila – perché la mappa di un Nessun Luogo si definisce dagli spazi e dai vuoti, non attraverso ascisse e ordinate cartesiane.
La Città Interiore è un’autobiografia popolar letteraria, un mosaico senza tutte le tessere, un Pantheon dove gli idola – siano artisti o martiri – non si venerano, si interpretano. Un autoritratto collettivo con figure, una radiografia per parole e immagini di quel Nessun Luogo che ha per Nome Trieste.

È così – in un continuum sul quale lo stile di Covacich mantiene salda la presa al timone, ma lascia le vele gonfiarsi o raccogliersi – salgono sul palco ( vive come mai sarebbero risultate nel documentario preparato e poi abortito cui questo libro credo debba molto ) familiari e sconosciuti, amici e avversari, i vivi e i morti, luoghi di mare e di foiba, monumenti, lapidi, sedie, cappotti, trampolini, gerarchi fascisti, improbabili spie, eroi partigiani, mancati Gladiatori, poeti loro malgrado, pittori di tele e di muri, il Dubai, la Serbia, gli albanesi, i cinesi della Trieste post esodo istriano e quelli dell’odierno saccheggio commerciale…

Alessandro Piperno, cui questo libro potrebbe piacere molto, ha scritto recentemente su La Lettura del Corriere della Sera che “il colmo del gran romanziere è di essere un saggista impazzito” : Mauro Covacich ha scritto un romanzo che trova  l’indefinibilità di Trieste come nessun saggio è riuscito a cogliere, né tantomeno raccontare. 
Dopotutto, solo a Trieste, in dialetto ‘el màto’ vuol dire sia “l’uomo” sia “il matto”.

Valerio Fiandra

(2 febbraio 2017)