Nel paese di Abbondanza
Presso i Campi di lavori forzati aperti dal Reich il deportato era impiegato molte ore al giorno per lavori talora non necessariamente utili all’industria bellica; ciò non impediva ai deportati di comporre inni religiosi o profani (purché scevri da contenuti patriottici) e canti in madrelingua non immuni da contenuti antifascisti nonché pesantemente ironici nei riguardi dell’occupante.
A ragione di ciò le autorità dei Campi imposero gradualmente l’uso della lingua tedesca nei testi da mettersi in musica come pure nel teatro leggero o d’autore.
Non mancavano canti collettivi ispirati a inni scoutistici e studenteschi che cadenzavano la marcia presso i luoghi di lavoro o al rientro dagli stessi; nei Block si formarono cori di buona fattura e nel tam tam da una camerata all’altra gli inni erano spesso tradotti in più lingue affinché nessun prigioniero si sentisse estraneo all’attività musicale nelle poche ore libere.
L’attenzione maniacale prestata dal Reich al lavoro industriale era paritetica a quella prestata alla cura del dopolavoro, in alcuni Campi il lavoro coatto era sufficientemente calibrato perché il deportato producesse sia in fabbrica che nel tempo libero; ai prigionieri rimaneva un buon lasso di tempo serale e l’autorità, pur controllandola e talora censurandola, non impediva la loro creatività.
La premura con la quale in diversi Campi l’autorità si prodigava nel reperimento di strumenti musicali induce a credere che il Reich sfidasse il deportato a esercitare il proprio pensiero e mettere in gioco il proprio ingegno artistico a dispetto del contesto ambientale e dell’oggettivo disagio umanitario.
Il deportato tramutava questa sfida in risorsa dell’intelletto; buona parte della produzione musicale concentrazionaria si nutriva di tale enorme paradosso e rispondeva a questo ideale guanto di sfida lanciato dall’autorità tedesca all’indirizzo dei musicisti.
Nei Campi ad alta presenza demografica ebraica l’intelligentia musicale ebbe la grande possibilità di produrre arte ad altissimo livello; la maggior parte dei musicisti fu persino dispensata dai lavori più pesanti o potenzialmente lesivi delle capacità fisiche dell’artista.
Orchestre che eseguivano repertorio classico e tradizionale (l’orchestra maschile di Birkenau diretta da Szimon Laks suonava la domenica mattina per gli ufficiali SS e il pomeriggio per i deportati), gruppi di musica d’intrattenimento (basti pensare all’inedito ensemble del Campo di sterminio di Bełżec formato da 2 flauti, 2 fisarmoniche e 2 violini), quartetti d’archi con o senza pianoforte, allestimenti teatrali con tanto di vestiario e logistica per trucco e scenografia, band che eseguivano jazz (formalmente vietato nei Campi ma abbondantemente consumato e apprezzato dagli ufficiali tedeschi); le grandi turbine della creatività artistico–musicale ebraica erano in movimento.
Tutto ciò è attinente alla sfera dell’umano; il musicista fa musica così come parla e respira, non è assolutamente possibile opporgli alcun tipo di pressione e coercizione fisiologica.
Il Reich non aveva previsto la fallita invasione della Gran Bretagna, la disfatta di Stalingrado, il disastro della Campagna d’Africa, l’armistizio tra Italia e Alleati, lo sbarco in Normandia.
E poi c’è lo tsunami artistico nei Lager, una impressionante abbondanza musicale all’interno di mura e filo spinato e a dispetto di inenarrabili tragedie; anche questo il Reich non aveva previsto.
Francesco Lotoro
(8 febbraio 2017)