Cartografia d’Israele
Come altrove in Occidente, così in Israele si vive nello stordimento dell’effetto Trump. Né si discute unicamente del controverso proposito di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. Si discute anche – per esempio – dell’ebreo ortodosso Jared Kushner, il giovane e ricchissimo genero del presidente americano, elevato al rango di senior advisor della Casa Bianca. In quale misura la figura e l’azione di Kushner potranno alimentare, in America e fuori, vecchi stereotipi sull’influenza maligna delle lobbies politico-finanziarie ebraiche? Si discute inoltre, naturalmente, della futura relazione Trump-Netanyahu. Spostamento dell’ambasciata a parte, quale sarà l’atteggiamento della nuova amministrazione americana a fronte del rilancio (già in corso) degli insediamenti ebraici in Cisgiordania? In generale, anche nel rapporto con Israele Trump si toglierà lo sfizio di can-cell are al più presto qualunque traccia della cosiddetta «eredità di Obama»? Questioni aperte non solo per gli israeliani, ma per noi europei, altrettanto colpiti dall’entropia del nuovo ordine internazionale. Sicché giunge opportuna – nel suo piccolo – la pubblicazione in italiano di uno strumento di reference com’è l’atlante geopolitico di Israele confezionato a suo tempo (e recentemente aggiornato) dal politologo francese Frédéric Encel. Israele in 100 mappe è il titolo proposto dalla Libreria editrice goriziana, che si aggiunge ad altri atlanti storici usciti in traduzione presso il medesimo editore, fra i quali La Shoah in 100 mappe di Georges Bensoussan. Ad apertura di pagina (la pagina 68), il lettore di questo libro ha una riprova di quanto l’approccio cartografico possa riuscire stimolante ai fini della nostra problematica attualità. La mappa della geografia elettorale di Israele sembra fatta apposta per indurre a ulteriori riflessioni chi sia andato scrutando – dapprima con Brexit poi con Trump – le geografie elettorali del Regno Unito e degli Stati Uniti. In effetti, quella carta contrappone con evidenza quasi scolastica un Israele “rosso” dei grandi centri urbani della fascia costiera, da Haifa a Tel Aviv, che vota nettamente a sinistra, e un Israele “blu” esteso a tutto il resto del Paese, che vota nettamente a destra (come pure Gerusalemme, che tuttavia fa storia a sé). Le città affluenti da una parte, le periferie minacciate dall’altra. Dimmi dove abiti e ti dirò chi sei. D’altro canto, ad apertura di pagina il lettore di questo libro deve fare i conti con un’edizione italiana assolutamente inadeguata: e qui è impossibile indicare i numeri delle pagine, perché sarebbero troppi. La traduzione di Enzo Valentini riesce spesso incomprensibile, talvolta quasi grottesca. Le magagne redazionali comprendono refusi tipografici, imprecisioni topografiche, sciatterie infografiche. E comprendono – come se tutto ciò non bastasse – contraddizioni flagranti nei dati quantitativi (per dirne una: la popolazione ebraica degli insediamenti risulta essere di 400mila abitanti a pagina 57, di 600mila alla pagina successiva). In Francia, Frédéric Encel ha la reputazione di personaggio sulfureo, che maschera dietro credenziali accademiche il volto duro del militante. Diversi critici lo accusano di abbracciare, sotto sotto, le idee di un sionismo integrale, da estrema destra laica. Israele in 100 mappe conferma solo in parte il fondamento di tale critica. Di là da alcune cadute di tono, il testo con cui Encel accompagna la successione di mappe e grafici che compongono il suo atlante geopolitico è relativamente equilibrato in termini ideologici. La sezione sulla storia del conflitto israeliano-palestinese distingue le guerre «per la sopravvivenza» combattute dallo Stato ebraico fra 1948 e 1973 dalle guerre «per la supremazia» combattute dagli anni Ottanta in poi. La sezione sulla demografia politica esclude che i 900mila arabi musulmani cittadini di Israele (ma questo dato numerico risulta tutt’altro che aggiornato) costituiscano una «quinta colonna» del nemico. E riconosce, viceversa, quanto i coloni ebrei più integralisti siano «detestati dall’opinione pubblica israeliana». Per il resto, più che le parole di Encel parlano – com’è giusto che sia, in un atlante – le cartografie, gli istogrammi, i grafici a torta. Parla una varietà di rappresentazioni che valgono a revocare in dubbio sia certi luoghi comuni del discorso di sinistra intorno al conflitto israeliano-palestinese, sia certi luoghi comuni del discorso di destra. Nella sezione dedicata agli aspetti strategici e di sicurezza, un istogramma dimostra meglio di infinite discussioni la straordinaria efficacia (dal punto di vista di Israele) del cosiddetto «dispositivo di separazione», cioè del muro eretto a protezione dei confini nazionali e degli insediamenti in Cisgiordania: 451 vittime di attentati kamikaze nel 2002, nessuna dal 2007 in poi. Un altro istogramma illustra come le spese militari di Israele siano andate sensibilmente decrescendo nei decenni, e più che mai durante l’ultimo quarto di secolo, che pure è stato politicamente dominato da governi di destra: 34% del Pil nel 1971, 5,5% nel 2015. È particolarmente istruttiva, nella sezione dedicata agli aspetti diplomatici del conflitto israeliano-palestinese, la rappresentazione cartografica relativa alla Lega araba. Di contro al mito dell’«accerchiamento» dello Stato ebraico per opera dei famosi «30o milioni di arabi», la carta mostra come siano articolate e variegate, in realtà, le posizioni dei 22 Stati membri della Lega. Quattro dei quali intrattengono relazioni diplomatiche con Israele, altri quattro hanno rapporti commerciali, e ben sedici (fra cui l’Egitto e la Giordania) sono alleati militari degli Stati Uniti, a loro volta alleati inossidabili di Israele. Altrettanto fantomatico – ragiona Encel – è lo«spettro di uno sprofondamento demografico»: il rischio che la popolazione di cittadini arabi musulmani possa diventare, in un prossimo futuro, maggioritaria nello Stato ebraico. Un istogramma sui tassi di natalità parla chiaro in questo senso. Nel 1977, i musulmani *** israeliani avevano mediamente otto figli per coppia, gli ebrei ne avevano tre. Quarant’anni dopo, il tasso di natalità degli ebrei si è mantenuto intorno ai tre figli per coppia, mentre quello dei musulmani è sceso da otto a tre. Risultato: il rapporto fra israeliani ebrei e israeliani musulmani va crescendo in favore dei primi. Nel 1996, su cento neonati in Israele, 69 erano ebrei, 25 erano musulmani. Nel 2015, i neonati ebrei sono stati il 74%, quelli musulmani il 20 per cento. Così – per quanto Frédéric Encel possa avere, in Francia, la reputazione di un pasdaran del sionismo – il suo atlante geopolitico finisce per sconfessare alcune fra le leggende più salde del discorso ebraico integralista.
Sergio Luzzatto, Sole 24 Ore, 12 febbraio 2017
(12 febbraio 2017)