Jewish Pride

emanueleSenza scomodare la psicoanalisi, gli atti mancati e la memoria del buon Sigmund Freud, sappiamo che alcune cose si possono dire, altre no, e non per amor di censura. Chi non dice a un’anziana signora che fra quella montagna di rughe è complicato intravvederne gli occhi, non è una persona poco sincera ma, semplicemente, un essere normale. Ciò, per dire che non è necessariamente una virtù essere sempre sinceri e che, talvolta, la cosa può diventare un boomerang, come nel caso di un colloquio che ebbi ad intercettare: “sei vecchio..” e, di rimando :”eh, ma almeno io ci sono arrivato..”
Succede, pure, che il non detto debba per forza essere dissotterrato anche a mani nude, ed esposto ad una più matura riflessione. Ad esempio, un quotidiano ha avuto la buona idea di inserire sul web un articolo sui canti perduti dell’Olocausto, in calce al quale vi erano anche questi commenti: “E basta! Sono nato nel 42, non ho visto niente e non ho colpe, non nego quello che è successo nel passato, ma per favore basta. Olocausto solo olocausto, ma che si ruba la terra ai palestinesi nessuno dice niente?”; la replica “le due cose non si escludono: si può (e si deve) continuare a tenere viva la memoria dell’olocausto e allo stesso tempo condannare Israele per essere a sua volta nazista nei confronti dei palestinesi”.
Poiché non amiamo né i furti né i nazisti, non amiamo leggere che gli israeliani siano considerati ladri e nazionalsocialisti; possiamo anche domandarci se questi post siano l’eccezione e se si tratti di opinioni isolate. Insomma, possiamo interrogarci finché vogliamo, ma non è certo che la discussione, la riflessione e il dibattito siano utili se non si tira fuori anche il non detto: l’impegno continuo e intenso per tenere in vita la memoria dell’Olocausto forse dovrebbe essere inserito in un contesto più realistico, che comprenda le ragioni del buio della ragione, per non dover continuare a sentire: a) che gli ebrei dominavano l’economia, b) che sei milioni di ebrei israeliani (un numero icastico) da vittime sono diventati carnefici.
Ancorché non vi sia un equipollente italiano di “los niños y los locos dicen la verdad” (i bimbi ed i folli dicono la verità) bisogna ammettere, come prima accennato, che se non si può dire sempre tutto, è altrettanto vero che non si può rispondere sempre a tutto. Tuttavia, quando l’odio serpeggia e s‘insinua ovunque, le domande vanno poste e, se non si hanno sempre delle risposte pronte, possiamo sperare che più intelligenze convergano nel fornirle.
A questo punto, se qualche ingenuo mi ponesse il quesito, azzarderei a proporre che si potrebbe fare posto, nelle diverse commemorazioni, all’ipotesi di un Jewish Pride, nel quale troverebbero amorevole dimora le diverse ragioni per le quali un ebreo può essere fiero della sua identità. Al contempo, poiché il razzismo affonda le sue radici in una visione cospirativa che si nutre del monolitismo, occorrerebbe mostrare le diverse espressioni dell’ebraismo e degli ebrei, sul piano sociale, culturale, politico e religioso e finanche sportivo. Certo, è un’ingenuità, ma altrettanto ingenua sarebbe la rimozione di quelle reazioni che feriscono ma ormai non stupiscono.

Emanuele Calò, giurista

(14 febbraio 2017)