Bipolidia franco-israeliana
Marine Le Pen, leader del Front National francese, ha proposto di modificare la legge, restringendo i casi di doppia cittadinanza (la c.d. bipolidia) all’ambito europeo, comprendendovi pure la Federazione Russa, forzando un poco, in quest’ultimo caso, i criteri geografici. Poiché si tratta di scelte che parrebbero meramente politiche, in quanto riferite anche all’Europa extra UE e in ogni caso non ispirate a trattati bilaterali o multilaterali, non è possibile escludere tassativamente una discriminazione o comunque un qualche vulnus al principio di eguaglianza. Tuttavia, non è una questione che si possa dirimere sbrigativamente, dacché spetta a ciascuno Stato il potere discrezionale di fissare le proprie regole in tema di cittadinanza.
Il quadro giuridico attuale è, in grandi linee, il seguente. La Convenzione di Strasburgo del 6 maggio 1963 sulla diminuzione dei casi di doppia nazionalità e sugli obblighi militari in caso di doppia nazionalità dispone, all’art. 1, che i cittadini maggiorenni delle parti contraenti che acquisiscono a seguito di una manifestazione espressa di volontà la cittadinanza di un’altra Parte, perdono la loro precedente cittadinanza, non potendo essere autorizzati a conservarla. Sennonché, in virtù d’un accordo, diversi Stati, fra i quali Francia e Italia, hanno deciso di non applicare tale norma.
Nell’ordinamento italiano, la legge 13 giugno 1912, n. 555 disponeva, all’art. 8, comma primo, che perdeva la cittadinanza italiana colui il quale spontaneamente acquistasse una cittadinanza straniera e stabilisse all’estero la propria residenza. In seguito, la legge 123/1983, che richiedeva l’opzione per la cittadinanza italiana in caso di bipolidia (non molto diversamente dalla proposta di Le Pen) fu subito ridimensionata dalla legge 180/1986. Si giunge così alla legge 91/1992, il cui art. 11 dispone che il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana.
Dal canto suo, la legge italiana di diritto internazionale privato (l. 218/1995), all’art. 19, dispone che se la persona ha più cittadinanze, si applica la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra le cittadinanze vi è quella italiana, questa prevale. Disposizione ridimensionata dalla sentenza García Avello della Corte di Giustizia del 2 Ottobre 2003, che nel procedimento C-148/02, ebbe a stabilire che gli Stati membri non possono privilegiare l’applicazione della loro cittadinanza a scapito di quella di un altro stato membro.
L’art. 9 del Trattato sull’Unione Europea e l’art. 20 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, dal canto loro, hanno istituito la cittadinanza europea, che si aggiunge a quella nazionale, senza sostituirla.
Sembrerebbe esservi un diffuso favore nei riguardi della doppia cittadinanza, estesa anche nei riguardi di un numero indefinito di cittadinanze, come si inferisce agevolmente dai diversi Regolamenti europei, laddove consentono di scegliere la legge applicabile fra le diverse cittadinanze di cui si sia titolare. Non solo: da ultimo, nel caso di Malta, la Commissione europea è arrivata a consentire con qualche limitazione non rilevantissima, la c.d. vendita della cittadinanza la quale, sotto forme diverse, si è diffusa in Europa e in taluni Stati extra europei.
Un siffatto favore è il portato della globalizzazione, che postula fra l’altro la libera circolazione delle persone. Sennonché, l’accendersi del fenomeno del terrorismo e dell’immigrazione clandestina, ben oltre i casi di asilo previsti dalla Costituzione italiana, ha provocato i noti contraccolpi che sono stati incasellati, in modo forse sbrigativo, alla voce ‘populismo’.
Tuttavia, malgrado le diverse aperture, attuate con successive modifiche legislative, in diritto comparato troviamo l’art. 25, comma 1° della legge tedesca, la quale commina la perdita della cittadinanza qualora un cittadino tedesco ne abbia acquisito un’altra in seguito ad una specifica domanda (e quindi non in modo automatico) a meno che si tratti di una cittadinanza dell’Unione Europea, della Svizzera oppure di uno Stato col quale si sia stipulato un trattato apposito. Le previsioni della legge sono comunque alquanto complesse, e nei dibattiti è stata contestata alla Le Pen l’esattezza di talune sue affermazioni sul diritto tedesco. Sarebbe anche da rivedere la sua posizione nei riguardi della perdita della cittadinanza nei riguardi dei bipolidi che commettano reati, perché la pericolosità sociale cambia a seconda dell’illecito: un conto è non restituire una bicicletta, altro è attentare contro lo Stato.
Sennonché, l’art. 116, comma secondo della Legge Fondamentale tedesca (la Costituzione) dispone che alle persone già cittadine tedesche che furono private della cittadinanza tra il 30 gennaio 1933 e 1’8 maggio 1945, per motivi politici, razziali o religiosi, e ai loro discendenti, dev’essere, a richiesta, nuovamente concessa la cittadinanza. Ovviamente, si tratta per lo più degli ebrei.
Quanto alla Francia, occorrerebbe rinviare al recente dibattito su Vichy, dove il punto fermo era costituito dalla prevalente deportazione degli ebrei stranieri, per capire quale sia l’importanza di un passaporto; al riguardo, dovrebbe bastare il mero richiamo al nome di Irène Némirovsky, uccisa ad Auschwitz dopo aver tentato in tutti i modi di acquisire la cittadinanza.
Oppure, più banalmente, basterebbe considerare che, per gli israeliani, il doppio passaporto consente di viaggiare in sicurezza e di entrare nei Paesi che non consentono loro l’accesso. Non è una questione di lealtà, ma spesso di sopravvivenza e, al di là delle indignazioni varie, spesso fine a sé stesse, bisognerebbe provare a far valere il richiamo della ragione.
Emanuele Calò, giurista
(21 febbraio 2017)