NARRATIVA Un padre, una moglie, una vedova: sono assurde le vite oltre la porta

eshkol nevo tre pianiEshkol Nevo / TRE PIANI / Neri Pozza

C’è uno stabile residenziale in una imprecisata località di periferia d’Israele, dove tutto è decoroso e ordinato. Ci sono tre piani e ad ogni piano un appartamento. O meglio, tre porte chiuse dietro le quali avvengono cose, più o meno tristi, drammatiche, prevedibili, assurde. Nel suo nuovo romanzo, Eshkol Nevo usa un ardito accorgimento letterario: Tre piani sono infatti tre storie raccontate dai protagonisti a un muto e cangiante interlocutore. Uno scrittore che ascolta senza mai interrompere il flusso della scabrosa confessione, la destinataria di una lunghissima lettera che avrà un oceano e più da attraversare, il nastro di una antiquata segreteria telefonica. Sono tre storie molto diverse fra loro, accomunate però da qualcosa di profondo e inquietante: dietro una apparenza di «borghese» normalità – sulla quale sarà a un certo punto una ragazzina a puntare rabbiosamente il dito – si nascondono conflitti e drammi da cui non c’è modo di uscire se non negando l’evidenza, fingendo che tutto vada per il meglio. O spaccando tutto. Sarebbe un peccato, del resto, svelare qualche elemento in più di queste tre storie che ogni tanto casualmente si intrecciano, si incontrano sul pianerottolo dando al lettore un indizio qua e là, aiutandolo a districarsi nell’intrico di sentimenti. Ci sono, comunque, un padre di famiglia tanto insicuro quanto pronto a gesti teatrali, una moglie che non vede l’ora di vivere un po’ nei sogni ma quando le succede ha paura, una vedova con più di un segreto addosso. Il bello di queste tre storie è che ognuna finisce a modo suo, proprio come succede nella vita reale. Anzi, nessuna finisce davvero e il lettore è libero di seguire il filo immaginario degli eventi ancora da raccontare. Nevo è, fra tutti gli scrittori israeliani della nuova generazione, il più «tradizionale» nel senso positivo del termine: la sua aderenza ai canoni del romanzo si traduce ancora una volta in una scrittura sapiente, nella capacità di tenere insieme una trama composita e intricata come quella di Tre piani, dove molto se non tutto si gioca nella costruzione narrativa – e prima ancora nell’edificio «materiale» in cui quasi tutto avviene. In questo libro c’è molto Yehoshua Kenaz, un grande classico contemporaneo della letteratura d’Israele, ancora vivo ma purtroppo imbalsamato in un precoce Alzheimer: Kenaz è unico nel descrivere e raccontare gli «interni», è un Georges Perec più amabile, meno cinico ma non meno ironico. Kenaz è maestro nell’estrarre la tensione dalla banalità del quotidiano, nel trovare il mistero dietro la porta di ogni casa. Ma in Tre piani c’è anche molto l’A.B. Yehoshua del virtuosismo stilistico: anche Il Signor Mani, forse il suo romanzo più ardito e sorprendente è costruito attraverso dialoghi in cui uno degli interlocutori puntualmente manca, benché sia presente dentro il tessuto della narrazione. Anche Nevo in questo romanzo costruisce le storie attraverso l’incontro, sempre virtuale, tra i protagonisti e una cassa di risonanza sempre lontana, probabilmente irraggiungibile. Le vicende si dipanano così a poco a poco, con un ritmo alterno. Il protettivo padre di famiglia della prima storia ha ragione o no quando vede l’orrore, il marcio? O quasi tutto sta nella sua testa, frutto malato della sua insicurezza, delle frustrazioni che si porta dentro? E la vedova del terzo piano, giudice in pensione votata a una solitudine piena di nostalgia ma anche di quiete, che cosa nasconde? E Hani quanto vive di realtà, quanto di allucinazioni che nascono nel vuoto delle stanze mentre il marito è via per lavoro e i bambini a scuola, giorno dopo giorno? Tre piani si svolge così, lasciando che i protagonisti si confessino a muti interlocutori, affidando i propri segreti a qualcuno – anzi a qualcosa – che mai li rivelerà. Se non fosse che ci sono uno scrittore e il suo lettore ad ascoltare dietro l’angolo della pagina.

Elena Loewenthal, La Stampa ttL, 11 marzo 2017