I paradossi della Memoria

caloLa disinformazione nei riguardi di Israele da parte di molti mass media inizia a dare i suoi frutti, con la campagna che tende ad isolare lo Stato ebraico a stregua di un lebbroso. Nel frattempo, è da domandarsi se le frequentissime iniziative per la Memoria dell’Olocausto possano frenare l’antisemitismo, che (anche) di quello si tratta. Non facciamo, quindi, riferimento al solo impatto di tali commemorazioni, che in tesi potrebbe misurarsi indipendentemente dal pregiudizio razzista. Bisognerebbe, però, guardare al di fuori e verso il deserto dei Tartari, dove campeggia, per esempio, su una paginata di un prestigioso quotidiano una pubblicità che promuove un tour in Polonia con quattro immagini di cui tre riguardano le sue bellezze artistiche mentre la quarta riguarda Auschwitz, nobilitata da una descrizione sulla ‘nuova memoria’. Permane, tuttavia, un accostamento strano: l’indicibile non deve diventare una meta turistica nemmeno con tutti i caveat di questo mondo.
Su Morashà, nel 2004, ebbi a pubblicare delle osservazioni critiche nei riguardi del Giorno della Memoria, le quali critiche sono state anche avanzate da altri in prosieguo. Sta di fatto che se parlare dell’Olocausto porta tanti ad asserire che gli ebrei fanno ai palestinesi ciò che i nazisti fecero loro, vuol dire che qualche cosa non ha funzionato a dovere. E quel che non funziona è dovuto all’esigenza inconscia di smarcarsi dalle sorti dei sei milioni di ebrei israeliani, vista la loro impopolarità. Siamo investiti da una ondata di odio che travolge tutto, facendo disperdere ogni distinzione fra il bene e il male anche nelle azioni dei diversi governi israeliani. Non si distingue più nemmeno fra West Bank, dove Israele è presente, e Gaza, dove il governo israeliano improvvidamente fece un ritiro unilaterale (anziché bilaterale) nel 2005 e dove non ha alcun ruolo se non quello che discende dagli Accordi con l’autorità palestinese (quando si discetta di assedio si fa riferimento soprattutto ai controlli delle frontiere previsti da detti patti).
“Ti odio”: una dichiarazione d’amore avrebbe un effetto molto minore
“Love calls you by your name” cantava Leonard Cohen, ma anche l’odio non scherza, e non a caso il disco si chiama “Songs of love and hate”. Noi parliamo d’amore, ma Sigmund Freud insegnava che, come relazione nei confronti dell’oggetto, l’odio è più antico dell’amore e scaturisce dal ripudio primordiale che l’Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli.
I freni inibitori in questo caso sono facilmente aggirati, con la sostituzione di “ebreo” con “sionista” abbinata ad una sorta di profana parabola in virtù della quale le vittime sarebbero diventate persecutori. È cambiato molto da quando L’Unità, il 5 luglio 1976, arrivò a condannare il raid israeliano ad Entebbe che salvò le vite dei passeggeri ebrei, separati da quegli ‘ariani’ e destinati ad essere uccisi? La logica – illogica d’allora rivive adesso, senza grandi differenze.
Siffatte deviazioni dalla logica non trovano mai le barriere dell’irrealtà, e questo George Orwell lo aveva delineato in “1984”, con la sua romanzesca neolingua. Sempre in “1984”, si legge: «Quale sottoscrizione?» rispose Winston, tastando automaticamente il denaro che aveva in tasca. Circa un quarto della paga se ne andava in sottoscrizioni volontarie, tanto numerose che non si riusciva a tenerne il conto. «È per la Settimana dell’Odio…»
Farebbero bene, i promotori dell’ Apartheid Week, a meditare sul potere dell’empatia anche con gli israeliani; potrebbero addirittura scoprire, come fecero i missionari con gli indigeni americani, che anche gli ebrei israeliani hanno un’anima. Potrebbero addirittura scoprire che con l’amore si realizza la pace e che con l’odio si arriva alla guerra: dipende dal dosaggio. Una modesta proposta: se diffondessero una Love Week tutti li riderebbero appresso (forse anch’io), ma alla fine le adesioni sarebbero infinite (anche la mia), se non altro per l’originalità dell’idea, superiore al suo candore. Anziché boicottare, promoviamo i prodotti palestinesi ed israeliani, gli atenei palestinesi ed israeliani, e così via. Potremmo pure attingere a Mogol/Battisti: “Amarsi un po’”. Vedete? avremmo finanche la colonna sonora pronta. La pace, poi, la potrebbe firmare uno qualsiasi di noi, nel solco dell’art. 1381 c.c. Ah, e niente anfibologie, per favore.
Dopo la semina
Non posso credere che ogni ebreo debba per forza identificarsi con le politiche dei governi israeliani; tuttavia, le accuse corrive e l’informazione incerta hanno provocato un tale cortocircuito mediatico e hanno sollevato un tale livore che ormai ogni distinzione fra torto e ragione è saltata perché le accuse sono sovente così fantastiche da rendere pressoché impossibile ciò che sarebbe il sale della democrazia, ossia, l’esercizio della critica.
A fronte di questo vero e proprio dramma, a poco serve una figura alquanto fuori dal tempo come l’intellectuel engagé, le cosiddette anime buone, troppo legate a vecchi stereotipi, se non altro perché intellettuale di destra oppure intellettuale di sinistra sono dei veri e propri ossimori: se sei un intellettuale non ti puoi fissare per sempre alla destra o alla sinistra, a meno che ti voglia rivelare per ciò che sei: uno meno mobile dell’elettorato (e non per nulla esiste il suffragio universale). Per quello desta qualche stupore chi sistematicamente individua soltanto l’antisemitismo di destra o di sinistra, col non invidiabile risultato di balcanizzare il razzismo, per cui il destrorso e il sinistrorso avranno ciascuno il loro antisemita preferito. De gustibus non est disputandum, però sarebbe bene non ripetersi troppo.

Emanuele Calò, giurista

(14 maggio 2017)