Testamento biologico e HalakhahI limiti tra lecito e illecito
È iniziata lunedì, non senza polemiche, la discussione alla Camera in merito alla legge sul cosiddetto testamento biologico: si tratta della dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) che una persona capace di intendere e di volere sottoscrive per dichiarare quali trattamenti sanitari intenderà accettare o rifiutare nel caso in cui subentri un’incapacità mentale.
Da tempo si discute di introdurre la DAT anche in Italia e sulla questione si è aperto un lungo dibattito pubblico, in cui anche la voce ebraica si è fatta sentire. Già nel 2006, mentre nel nostro Paese si discuteva del caso Welby (sull’eutanasia passiva e sull’accanimento terapeutico) rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, aveva spiegato quali fossero le posizioni della tradizione ebraica in merito al testamento biologico: ad esempio, una dichiarazione anticipata in cui si esprime la propria volontà per atti futuri è prevista nell’ebraismo e, per analogia ed entro certi limiti, è quindi permessa la dichiarazione anticipata di trattamento. Il cuore del problema però è un altro, ovvero la liceità delle direttive anticipate rispetto alla legge ebraica. In particolare la legge al vaglio della Camera all’articolo 3 prevede che, “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali” ma il consenso non può comportare “l’abbandono terapeutico”. Sul tema dell’alimentazione e idratazione, però, spiega a Pagine Ebraiche 24 rav Di Segni, “la maggioranza delle autorità rabbiniche è concorde nel valutarle come essenziali e pertanto non si possono togliere: farlo significherebbe far morire di fame o di sete una persona e questo non è permesso”. D’altro canto, sottolinea il rav, “bisogna sempre guardare il caso specifico: ci sono situazioni infatti in cui le pratiche mediche costituiscono accanimento terapeutico e in questi casi non c’è un’autorizzazione a continuare la terapia. Il principio generale quindi – spiega rav Di Segni – deve essere misurato con il problema specifico”. In un suo scritto, il rav ricordava inoltre che “la tradizione religiosa ebraica, che rifiuta l’eutanasia attiva, ha comunque introdotto una serie di importanti e sottili distinzioni tra questa e altri tipi di intervento che sono finalizzati alla rimozione di impedimenti artificiali al decesso; perché se esiste un diritto-dovere di curare, non esiste un diritto-dovere di prolungare artificialmente la vita”. “Normalmente la decisione su questi argomenti – sottolinea il rabbino capo di Roma – è basata su di un triangolo medico-paziente-esperto di bioetica: il medico infatti, per quanto sia un tecnico di tutto rispetto, non è un esperto bioeticista per cui non necessariamente tiene conto del limite tra lecito e illecito al di à delle leggi esistenti, un limite che può essere variabile. Per chi si attiene alle regole della tradizione ebraica, l’esperto è il rabbino competente in materia. Anche qui, il rabbino-esperto dovrà comunque tenere conto di un infinità di sfumature da valutare rispetto al caso specifico”.
Daniel Reichel @dreichelmoked
(15 marzo 2017)