Lascia andare il mio popolo

Sara Valentina Di Palma“In seguito Moshe ed Aharon andarono a dire al Faraone: ‘Così ha detto il Signore D-o d’Israel, lascia andare il Mio popolo’…” (Shemot 5,1). In Egitto erano scesi settanta uomini (corrispondenti alle settanta nazioni nel mondo), ora si accingono a partire in seicentomila, tanti quanti gli ebrei alla nascita di Israele nel 1948, tanti quanti le lettere della Torah (perché Israel è acronimo di Yesh Shishim Ribo Otiot LaTorah, ci sono seicentomila lettere nella Torah, e se anche contandole sono poco più di trecentoquattromila, bisogna tener conto della vocalizzazione, o delle lettere non scritte bianche tra l’inchiostro nero). Il popolo ebraico nasce qui, ora, durante i pochi secoli trascorsi in Egitto, in cui da Benè Israel, figli di Israele, gli ebrei diventano Am Israel, popolo d’Israele che forse proprio per la sua unità e diversità fa paura al faraone, il quale ne teme, probabilmente, più che la prosperità, la fiera autonomia anti assimilatoria.
“Lascia andare il mio popolo”, chiede per sette volte Moshe. Tuttavia, il popolo ha ancora molta strada da fare per essere davvero tale, come racconta Giacoma Limentani a proposito del ritorno di Moshe in Egitto dopo aver accettato, abbastanza scettico, la chiamata del Signore a liberare gli ebrei schiavi del faraone per condurli verso Canaan: “Convinti gli Ebrei, bisognava convincere il Faraone. Secondo Mosè, pratico della mentalità di corte, la richiesta doveva essere presentata da una delegazione di dieci uomini. L’entusiasmo subì una prima scossa mentre gli anziani si scrutavano l’un l’altro”. Aharon riesce infatti a racimolare faticosamente dieci notabili, tra cui egli stesso ed il fratello, che si rechino da Paro, ma gli anziani si dileguano terrorizzati due alla volta, prima alla vista del potente esercito del faraone, poi udendo che il sovrano si aspettava di ricevere un dono mentre la delegazione era giunta a mani vuote, indi udendo di dover attendere, infine alla vista della stretta porta da cui sarebbero dovuti entrare, passando tra due idoli. “Andate, andate, – sospirò [Moshè, alla vista degli ultimi due anziani che fuggivano via terrorizzati] – ma finché vi lascerete spaventare da due statue non sarete mai un popolo” (Giacoma Limentani, Gli uomini del libro. Leggende ebraiche, Adelphi 1975, pp. 134, 136). Commenta Rashi a proposito della dipartita poco onorevole degli anziani che lasciarono soli Aharon e Moshè, citando Shemot Rabbà, che nel Sinai furono puniti da D-o il quale fece avvicinare a Sé Moshe soltanto (Rashi di Troyes, Commento all’Esodo, Marietti 2009, p. 32).
“Lascia andare il mio popolo”, When Israel was in Egypt’s land / Let My people go! / Oppressed so hard they could not stand, Let My people go!”, cantava lo spiritual afroamericano Go down Moses, intonato dagli schiavi della Virginia durante la guerra di secessione. Le stesse parole furono riprese dai refusenik, gli ebrei sovietici che dopo la guerra dei Sei Giorni rivendicavano il diritto, loro negato, di fare alià.
“Lascia andare il mio popolo affinché mi servano nel deserto”: andare verso la libertà significa andare verso la ricezione della Torà sul Sinai e l’accoglienza delle mitzvot. Lasciare l’Egitto, dunque, di per sé non è sufficiente per essere liberi, in mancanza di indipendenza spirituale e morale. Analogamente il Seder di Pesach non finisce mangiando l’Afikomen. Per qualcuno, ricordare la libertà ha significato aggiungere il ricordo della barbarie nazista, e c’è chi intona Anì maamin, l’inno di fede nella venuta di Maschiach e nella redenzione finale, altri invece cantano piyutim, inni liturgici. Per tutti, comunque, “questa sera è diversa da tutte le altre sere” nel farci un popolo unico – e “libero nella nostra terra”, concludiamo con l’HaTikvà.

Sara Valentina Di Palma

(23 marzo 2017)