distanze…

A Roma c’è un’ antica consuetudine per la quale colui che apre un Bet Hakeneset, solitamente lo Shammash laddove è presente, deve prima bussare alla porta. Per chi si bussa se nel Bet Hakeneset non c’è nessuno? Quando ci si occupa della cosa pubblica si tende spesso a rivendicare la proprietà dei progetti di cui ci rendiamo protagonisti. I progetti di successo hanno sempre tanti reclami di paternità, viceversa, i progetti fallimentari risultano quasi sempre orfani e si fa una certa fatica a ricomporre la filiera delle responsabilità dei loro insuccessi.
Moshè ha appena completato la costruzione del Santuario, e ciò nonostante, la Torà ci riferisce che “non può” accederci quando vuole (Shemòt, 40; 35). Volere è potere…?
Nel nostro universo il termine “io posso” viene vissuto spesso come una scommessa di affermazione del proprio potere. Se la Torà dice: “Non puoi!”, non significa che non hai l’opportunità o le capacità. Significa che “non hai il permesso”.
In un un mondo in cui molte persone sono convinte di potere tutto e sempre, e in cui ci si sente titolati a far tutto, la Torà ci insegna che vi sono situazioni in cui dobbiamo rispettare le distanze. Proprio quando qualcosa sembra appartenerci di più ed esserci molto intima dobbiamo prendere coscienza, come succede a Moshè nel Tabernacolo, che è necessario confrontarsi con tende, cortine, filtri, ricordandoci che non possiamo entrare dove e quando vogliamo e che non tutto ciò che si vuole si può fare.
La grandezza di Moshè è quella di non montarsi mai la testa. Ha ricevuto l’ordine di costruire il Santuario e lo ha fatto. Il Santuario è pronto, ma Moshè consegna la chiavi ad Israele. Torna in cuor suo ad essere un ebreo come gli altri.

Roberto Della Rocca, rabbino

(28 marzo 2017)