Segnalibro – Il popolo del sogno

pavoncelloParole e arte per raccontare l’imminente festività ebraica di Pesach, ma non solo. Serata ricca di spunti al Centro Bibliografico UCEI, con al centro il volume di recente pubblicazione “Il popolo del sogno. 50 incisioni sulla Bibbia ebraica” (ed. Lantana) di Vittorio Pavoncello.
Coordinata da Raffaella Di Castro, la serata ha offerto diversi contributi. A prendere la parola, per un inquadramento dell’opera ma anche per tracciare ulteriori orizzonti di riflessione, anche la filosofa Fiorella Bassan, il sociologo Giorgio Pacifici, il rav Amedeo Spagnoletto, l’architetta Laura Supino.

L’occasione per questa iniziativa è l’uscita del libro Il popolo del sogno. 50 incisioni sulla Bibbia ebraica, di Vittorio Pavoncello (Lantana). Il libro fa seguito a una mostra che si è tenuta nel 2004 al Complesso del Vittoriano e alla galleria Trieste contemporanea.
Nel libro vari studiosi, intellettuali molto diversi tra loro, per provenienza religiosa o laica, culturale e disciplinare (si va dall’arte all’antropologia, psicologia, filosofia, storia, linguistica, spiritualità, esegesi, fino all’esperienza vissuta) commentano ciascuno una delle 50 incisioni. Come l’artista stesso scrive nell’introduzione, ognuno ha partecipato “secondo la propria fede o sistema di valori”, secondo la propria peculiare soggettività.
A partire dal filo conduttore ebraico della Bibbia – intesa da Pavoncello come patrimonio dell’umanità, “la base di ogni relazione umana e sociale” che struttura la nostra quotidianità – il libro fa dialogare linguaggi diversi: non solo differenti tradizioni culturali e religiose e differenti ambiti disciplinari, ma anche e soprattutto immagini e parole.
Anche per questa serata abbiamo quindi scelto il doppio livello di mostra e dibattito e più voci diversificate a dialogare.
Questo approccio ben si presta a riprendere e approfondire il tema delle lingue della Giornata Europea della Cultura Ebraica di quest’anno (cha ha dato luogo e darà ancora luogo a diverse iniziative, presso il Centro Bibliografico), allargando la riflessione alle immagini, intese anch’esse come linguaggi non necessariamente idolatrici. Ancor di più con oggi riprendiamo la questione del divieto di immagini e del rapporto tra arte ed ebraismo, inaugurata al Centro Bibliografico con il convegno “Immagini vietate o permesse? Arte ed ebraismo a Roma” (novembre 2016) e proseguita con la giornata in ricordo di Emanuele Luzzati per i dieci anni della sua morte (febbraio 2017).
Molti dei commentatori nel libro fanno riferimento al divieto di immaini / idolatria e al coraggio con cui Pavoncello si rapporta alla Bibbia attraverso l’arte. Molti sottolineano e apprezzano come le sue immagini non siano idolatriche ma piuttosto simboliche, aprano l’interpretazione anziché chiuderla, siano fortemente oniriche. Nella loro estrema libertà immaginativa esse conservano tuttavia il legame con la tradizione e, forse per aggirare il divieto, usano la lingua stessa, i versetti biblici, come elemento artistico. In questo modo le opere di Pavoncello, “in forme nuove e spiccatamente ebraiche, aggiungono un modo di rapportarsi ai nostri testi sacri che era pressoché sconosciuto nei secoli scorsi” (Amos Luzzato), creano un “nuova iconografia”, estremamente originale, che, secondo Anna Foa, intende rappresentare proprio il confine tra parola e immagine, “tra trasgressione e obbedienza al divieto”.
Anna Foa si sofferma in particolar modo sul divieto di immagini, spiegando come vada inteso come un divieto del loro culto idolatrico più che delle immagini in quanto tali. Di fatto inoltre non è mai stato un divieto assoluto, ma più volte nella storia contraddetto, a partire dalle statue d’oro dei cherubini poste da Dio stesso a tutela dell’Arca fino alla sinagoga di Dura Europos, affrescata con immagini bibliche e alle Haggadot miniate, per menzionare solo alcuni esempi.
Anna Foa si chiede se la Legge stessa, vietando l’immagine non mirasse ad approfondire proprio i confini tra parola e immagine e se non sia il divieto stesso a contenere in sé “la libertà di violare e quella di osservare”. E’ degno di rilievo il fatto che Anna Foa parli di libertà anche per l’osservanza stessa. E questo ci porta alla citazione dalle Quattro letture talmudiche di Emanuel Levinas che con Vittorio Pavoncello abbiamo deciso di mettere ad esergo della nostra serata:
“Gl’Israeliti, all’uscir dall’Egitto, riceveranno la Torà: la libertà negativa, di schiavi affrancati, si trasforma in libertà della Legge incisa sulla pietra, in libertà di responsabilità.”
Qui Levinas si riferisce al Midrash Shemot Rabbah, 4, 7 in cui i maestri rabbinici si interrogano sul significato dell’espressione “inciso sulle tavole”. Non bisogna leggere charut (inciso), ci insegnano, ma cherut (libertà). L’incisione è portatrice di libertà. Incisione della Legge, ma forse anche della parola, del segno, dell’arte, dell’opera umana, del gesto. E viceversa la libertà deve limitarsi nell’“incisione”: nella Legge, nel linguaggio, nell’arte, nell’esperienza, nella società, nella storia.
Mi sono permessa di fare anche io il gioco dei commentatori del libro di Pavoncello e mi sono chiesta cosa avrei scritto e che immagine avrei scelto: scelta difficile, forse Genesi 32,29, “Non Giacobbe ti chiamerai ma Israele” o Esodo 3,2, “Il roveto ardeva ma non si consumava”. In ogni caso le sue incisioni mi hanno fatto tornare in mente un testo molto bello di Stéphan Mosès, La pointe d’Ènoch. L’art et l’idole selon les sources juives (in Idoles. Donnee e debats, Actes du XXIV Colloque des intellectuels juifs de langue française, Denoël, Paris 1985; tr. it. inL’eros e la legge, Giuntina, 2000), letto tanti anni fa, con il quale vorrei introdurre e stimolare il dibattito di questa tavola rotonda.
Mosès parte dai versetti di Esodo 32,1-6 in cui il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal Sinai, chiede ad Aronne di fargli un dio. Aronne raccoglie l’oro “lo modella con l’aiuto di una punta o scalpello e ne fa un vitello d’oro”.
Mosès spiega come Mosè abbia la fondamentale funzione di significazione, simbolizzazione tra Dio e il popolo. I commentari infatti ci dicono che il popolo dalla bocca del Signore udì solo i primi due comandamenti o solo la prima parola del primo comandamento: “Io” (Anokhì). Gli altri comandamenti sarebbero stati uditi solo da Mosè che li avrebbe poi tradotti e formulati per il popolo. L’esperienza indicibile, inafferarrabile per l’intelletto umano, solo tramite la mediazione simbolica di Mosè, diventa comunicabile e comprensibile.
Si capisce allora l’angoscia e il panico del popolo che immagina che Mosé sia morto. Senza la sua mediazione simbolica, l’esperienza di liberazione dall’Egitto si dissolverebbe in una astrazione simile all’esperienza del nulla, in un infinito insensato. E’ nello spazio di questa libertà vuota che nasce l’idolatria: regressione verso le forme simboliche della cultura egiziana. Capiamo allora meglio l’interpretazione che Levinas dà della “libertà incisa su pietra” come responsabilità. E inizia a profilarsi un suo nesso con il tema della serata, al di là della semplice associazione della parola “incisione” con le incisioni di Pavoncello.
Mosès fa quindi riferimento a due commenti di questo passo biblico: Rashi e lo Zohar. Entrambi mettono in luce un’altra possibile interpretazione del versetto “modellò l’oro con l’aiuto di una punta”: “modellò” (yatzar) può voler dire anche “nascose”; “punta” (cheret) può voler dire anche “sacco”.
Queste riflessioni dei commentari ebraici sull’idolatria, secondo Mosès contengono in sé una teoria generale del segno: infatti mettono in relazione l’incisione di questa punta anche con la scrittura. L’idea che ne scaturisce è che il simbolo è sia rivelatore sia schermo perché il senso non si esaurisce nel segno che è sempre parziale e arbitrario. L’idolatria consiste nel credere invece che segno e senso coincidano, arrestando il movimento infinito di costruzione del senso. Riconoscendo solo la funzione di svelamento del segno e dimenticando o volutamente cancellando quella di schermo, l’idolo crea l’illusione che non vi sia nulla di nascosto. E così Aronne nasconde l’oro nel sacco per dare agli ebrei l’illusione che il vitello è stato creato dal nulla, basta a se stesso, coincide con la verità, imitando, come spiega lo Zohar, il metodo dei maghi.
Sia Rashi che lo Zohar collegano poi la “punta” con cui viene modellato il vitello d’oro a un versetto di Isaia 8,1, in cui si parla della punta di Enoch: “Prendi un grande foglio e scrivici sopra con la punta d’Enoch”. Enoch è nipote di Adamo, una delle figure più antiche della Genesi.
Leggiamo in Genesì 4,26 “E Shet ebbe un figlio e lo chiamò Enoch: è allora che si cominciò a chiamare con il Nome”. Enoch inventa il segno (la punta della scrittura e dell’arte) e al tempo stesso l’idolatria. Ma Enoch è anche all’origine dell’umanità stessa e non solo cronologicamente; Mosès ricorda infatti che Enoch è uno dei termini che designano l’uomo: Adamo è l’uomo in generale, Ish l’uomo singolo, Enoch l’uomo come essere sociale. Questo sta a significare che l’idolatria, come il segno, è parte costitutiva dell’uomo stesso.
L’idolatria conclude Mosès è una funzione, non un oggetto. E’ un rischio inerente a ogni funzione di simbolizzazione, a ogni attività di conoscenza, a ogni attività umana in genere, al movimento di senso che costituisce l’umanità dell’uomo. Sfuggire all’idolatria non significa rinunciare ai segni ma essere coscienti della loro ambiguità, della dialettica semre presente tra svelamento e occultamento.
A mio avviso Vittorio Pavoncello con le sue incisioni si assume pienamente la responsabilità (Levinas) di questa consapevolezza e di questa dialettica e solo nell’“incisione” di questo limite dà libero gioco alla sua estrema creatività onirica.
Come scrive Anna Foa, nelle immagini di Pavoncello, “se il bianco e il nero alludono al testo, il grigio degli sfondi ci porta forse in una dimensione altrettanto preziosa, quella del dubbio, e fa riemergere, oltre al divino, l’umano che è in noi, della parola, come dell’immagine, rifiutando di farsi idolo”.

Raffaella Di Castro

(7 aprile 2017)