Diversi, ma soprattutto uguali

torino vercelliFrancamente lascia comunque perplessi l’intero iter che in questi due anni ha portato Georges Bensoussan dai microfoni di una radio, nel mentre discuteva di un libro, ad un’aula di tribunale, per rispondere penalmente proprio delle parole pronunciate durante quella conversazione. L’esito assolutorio, pronunciato dal giudice, costituisce un passaggio tanto obbligato quanto, in origine, per nulla scontato, così come, a vicenda ora conclusasi, per niente sufficiente. Si tratta del “minimo sindacale”, per così dire, a partire dal quale ripartire nel merito di una riflessione che si impone oramai come improcrastinabile. Proprio per potere semmai sviluppare qualche anticorpo rispetto a situazioni che, Francia in testa, rivelano il declino della cittadinanza repubblicana e democratica. La quale, a sua volta, rischia di accompagnare la traiettoria di un’Europa stanca, priva di prospettive a venire che non siano quelle dell’affidarsi ad un impraticabile sovranismo politico, tanto seducente quanto impotente, così come ad un improbabile protezionismo economico ed, in immediato riflesso, culturale. Due atteggiamenti, questi ultimi, speculari ai fondamentalismi di varia natura che un po’ ovunque si propongono come la risposta radicale ai grandi mutamenti in atto. L’“affaire Bensoussan”, infatti, nel suo dipanarsi è solo la spia – ovvero la punta dell’iceberg, se si preferisce un’altra immagine metaforica – di un disagio sempre più diffuso. Cerchiamo di riordinare l’insieme delle questioni. Che sono molte. Tra di esse, rimandiamo da subito a due ordini di problemi: la fazionalizzazione del mondo antirazzista, ossia del circuito di associazioni e gruppi che, a vario titolo, si richiamano, da diverso tempo, alla lotta contro il pregiudizio e l’orientamento che la loro azione ha assunto ad oggi. Non è, ovviamente, una mera questione di disposizione d’animi. Poiché l’antirazzismo non è una pratica che rimandi agli umori, alle simpatie, alla “bontà del cuore”, ai sentimenti e agli affetti (come tali sempre revocabili o reversibili) costituendo, piuttosto, una parte fondamentale di un percorso inclusivo dell’essere cittadini, legato al rapporto tra riconoscimento del diritto alla diversità (individuale e di gruppo) di contro alla lealtà nei confronti delle norme comuni che regolano società complesse, stratificate, differenziate come sono le nostre. Si tratta essenzialmente di uno sforzo di contemperamento tra la soggettività delle persone e l’universalismo delle regole. Al centro c’è in tema del contratto politico e sociale, ossia del rapporto di scambio (quindi di rispetto delle sue regole) tra gli individui, con la loro storia, da una parte, e la comunità politica che chiamiamo Stato dall’altra. Il partire da questo presupposto richiama quindi la necessità di cogliere il mutato ruolo che nelle nostri paesi sempre più spesso assume la mobilitazione antirazzista, incontrandosi con un nuovo tessuto sociale, a partire da quello dell’immigrazione, dove la lotta al pregiudizio non è garantito in alcun modo che sia funzionale alla cittadinanza universalista. La piegatura che a volte può assumere, infatti, è quella di difendere il particolarismo comunitario di cui diventa emanazione. In parole povere: si reclama il riconoscimento della propria specificità culturale non per trasfonderla in un contesto collettivo dove coesistono pluralità d’identità sotto una medesima legge, uguale per tutti e quindi vincolante per ognuno, bensì per praticare un presunto diritto alla “differenza” intesa come una sorta di assoluto insindacabile. La parola chiave, al riguardo, è “identità”. Una specie di termine onnicomprensivo, adattabile ad ogni contesto, quindi anche in ambiti tra di loro così diversi da risultare quasi agli antipodi, ma usato concretamente per il medesimo obiettivo da tutti quelli che vi fanno ricorso in maniera truffaldina: quello di costituire una specie di riserva di autonomia di condotta, all’interno della quale le norme collettive, quelle dello Stato democratico, possono all’occorrenza anche essere sospese, a favore delle consuetudini di gruppo. Nei processi migratori, e nel loro assestamento in Europa attraverso la costituzione e il radicamento di comunità immigrate, il problema si pone come dirimente. La questione dell’antisemitismo, in tutte le sue metamorfosi, è fondamentale a tale riguardo. Essendo ancora una volta una cartina di tornasole di processi sociali e culturali ben più ampi, che chiamano in causa la coesione sociale. Per più aspetti torna a costituire una delle frontiere della nuova idea di laicità (ossia di separazione dei poteri; di definizione degli spazi di azione della religione rispetto alla politica; di preservazione e innovazione dell’idea di eguaglianza formale e sostanziale, soprattutto sul versante dei rapporti di genere e delle opportunità di integrazione; di delimitazione del ruolo delle condotte consuetudinarie, quelle che si originano dal gruppo di riferimento, rispetto a quelle societarie, sancite e tutelate dal diritto vigente). Nella condizione simbolica, ma anche storica, dell’«ebreo» si riflettono aspetti significativi dello sviluppo (o della regressione) dei diritti di cittadinanza. La de-umanizzazione della minoranza richiama l’imbarbarimento nel quale decade la maggioranza quando diviene strumento passivo delle manipolazioni dei disinvolti imprenditori politici del razzismo, di qualsiasi origine, colore e risma siano. Tutto ciò va detto non perché gli immigrati, ed in particolare quelli musulmani, siano in quanto tali candidati al pregiudizio antisemitico. Un giudizio, quest’ultimo, più che opinabile, soprattutto se si prescinde dalle loro concrete condotte individuali. La questione, infatti, non è quella di una “naturale” propensione all’antisemitismo, un fatto che non si dà mai in sé, costituendo piuttosto il prodotto di relazioni sociali e di rapporti culturali. Semmai la riflessione rimanda al fatto che l’ingresso di un elevato numero di persone che provengono da altri luoghi e, quindi, da culture distinte, si porta inevitabilmente appresso mutamenti di lunga prospettiva per i paesi ospiti. Una questione complicata che, come tale, richiede di essere compresa ed affrontata senza reticenze di sorta. Soprattutto al di là della retorica relativista di un certo multiculturalismo dei buoni sentimenti, che costituisce la fragile trincea di chi, inneggiando ai diritti alla differenza, si dimentica invece che sussiste un diritto all’eguaglianza il quale passa attraverso il complesso intrico dei legami sociali tra individui, gruppi e società. Senza quest’ultimo, diventa difficile se non impossibile garantire la continuità della coabitazione nei medesimi spazi evitando che da ciò si ingenerino conflitti distruttivi o comunque dilaceranti. Un obiettivo, quest’ultimo, che non è mai dato a priori ma che va costantemente rigenerato. Poiché nel tempo cambiano le condizioni e i soggetti che debbono incontrarsi e negoziare quella cosa che definiamo come lo “stare insieme”. Diritto all’eguaglianza implica, tanto più in questo caso, la consapevolezza che si è parte di un comune tessuto sociale se si rielabora il modo di concepirsi, se si è disposti a concedere qualcosa, se non ci si consegna al fantasma dell’identitarismo etnico (e quindi, spesso in immediato riflesso, razzista). Si tratta, ovviamente, di un impegno trasversale, che coinvolge tutti gli individui e i gruppi che sono componenti di un aggregato dinamico che voglia comporre per davvero una società dignitosa. Ma che chiama in causa soprattutto quanti sono recentemente comparsi sulla scena europea, portando con se stessi e nel proprio bagaglio di idee e pensieri, alcuni aspetti, in più di un caso irrisolti, delle proprie storie e culture di origine, dove le relazioni tra minoranze e maggioranza erano (e in parte sono a tutt’oggi) vissuti in maniera diversa da come li intendiamo nelle nostre democrazie. La questione giudiziaria che ha chiamato in causa Georges Bensoussan rimanda a questo sfondo problematico. E allo sfiancamento di un antirazzismo che fatica oramai a intercettare queste dinamiche tanto profonde quanto obiettivamente ineludibili. Rischiando paradossalmente di avvalorare quei pregiudizi che, almeno in origine, diceva di volere combattere. Magari mascherandoli come difesa del diritto ad una idea di identità intesa come una sorta di essenza, storicamente immutabile.

Claudio Vercelli

(9 aprile 2017)