libertà…

Per chi vive le scadenze del calendario, non come mere commemorazioni, ma piuttosto, come delle opportunità per rendersi protagonisti di quelle stesse vicende, la contiguità tra Pesakh, Yom ha Shoà, il 25 Aprile, Yom Haatzmaùt e Shavuot non è soltanto una prossimità temporale. Per alcuni ebrei uscire dall’Egitto e da Auschwitz continua a significare quella tentazione di normalizzazione del destino ebraico. Ma l’aria che respiriamo in questi giorni è sempre più inquinata da un subdolo antisemitismo che riesce ad accompagnarsi alla santificazione della Shoa cacciando questa fuori dalla storia e servendosi di questa tragedia per giustificare antichi rifiuti. Il prezzo da pagare per essere accettati dagli altri è spesso molto alto e doloroso. Per altri ebrei invece uscire dall’Egitto e da Auschwitz significa partecipare alla realizzazione di un progetto messianico ispirato a quella profezia di Ezechiele (cap. 37, vv. 11-12), con la visione di una valle di ossa secche che risorgono e tornano a rivivere nella Terra di Israele. Ma la nostra storia ci insegna che l’esilio non è soltanto una semplice, per quanto dolorosa, diaspora geografica, ma piuttosto uno stato della coscienza, di chi è costretto a scoprirsi ogni giorno esule fra i suoi simili. In questo senso Auschwitz sembra essere un Egitto senza uscita e la liberazione non significa sempre libertà. Non ci resta che continuare a imparare a contare i giorni e le settimane nell’attesa di Shavuot, cercando di far nostra una libertà che passa attraverso una dimensione extraterritoriale e semovente. “…non leggere “charùt “(inciso), bensì “cherùt “(libertà) perché non vi è uomo libero se non colui che si dedica alla Torà” (Pirqè Avòt ; 6, 2).

Roberto Della Rocca, rabbino

(25 aprile 2017)