CONTANDO L’OMER Le grandi responsabilità mischiano luce e dolore
Un midrash narra la storia di un uomo da molto tempo chiuso in una prigione, che un giorno ascolta una profezia sulla sua sorte. Gli viene detto che dopo poco tempo, il re lo libererà e trascorsi 49 giorni da quel momento gli darà in sposa sua figlia. Il prigioniero inizialmente non ci crede. Dopo la liberazione tuttavia, comincia a prestare fede anche alla seconda parte della profezia. Che puntualmente si realizza. La festa di Shavuot, letteralmente “settimane”, cade al termine del periodo della Sefirat haOmer. Per sette settimane a partire dal secondo giorno di Pesach, quando veniva portata al Tempio di Gerusalemme l’offerta di un omer, cioè una misura, di orzo, ci prepariamo al momento in cui abbiamo ricevuto da D-o il grande dono della Torah. Proprio come racconta il midrash, dove il prigioniero rappresenta il popolo ebraico, il re simboleggia il Signore e la sposa è la Torah. Queste sette settimane dovrebbero quindi segnare una fase particolarmente lieta. La Sefirat haOmer designa invece per gli ebrei un periodo di lutto. Come si conciliano le due cose? Questo non è l’unico caso di sovrapposizione tra gioia e tristezza. Durante la celebrazione del matrimonio ebraico si rompe un bicchiere, in ricordo della distruzione del Tempio di Gerusalemme, e così il dolore irrompe nella letizia. Inoltre sono sette i giorni per cui si devono protrarre i festeggiamenti per un matrimonio, esattamente come i giorni di lutto stretto dopo la perdita di una persona cara. Ma il Matàn Torah, il Dono della Torah, che rappresenta il coronamento, il completamento, dell’uscita dall’Egitto, sotto quale aspetto può essere considerato un momento luttuoso? Una prima risposta potrebbe essere di tipo storico. L’Omer cade in un periodo che per il popolo ebraico, molti secoli dopo l’uscita dall’Egitto, è stato teatro di eventi profondamente drammatici. A cominciare dagli anni dell’occupazione romana, durante il secondo secolo e.v. quando 24 mila allievi di rabbi Akiva morirono di pestilenza proprio nei giorni tra Pesach e Shavuot. Sempre durante l’Omer si verificarono molti dei massacri perpetrati in occasione delle Crociate, tra cui quelli di Spira, Worms e Magonza, il 3 maggio 1096, la cui tragicità rimane viva specialmente nelle tradizioni degli ebrei di origine tedesca. L’intreccio tra lutto e festa è molto tipico della storia ebraica, perché purtroppo le tragedie non scelgono il momento in cui avvenire. Però sarebbe semplicistico ridurre la giustificazione di questa sovrapposizione nell’Omer a una semplice lettura in chiave storica. Un racconto talmudico narra che quando rabbi Eliezer ben Orkenos, che era stato maestro di rabbi Akiva, fu in punto di morte, rabbi Akiva e gli altri Chachamim si recarono a fargli visita, dopo molto tempo che non lo facevano. La ragione per cui era trascorso questo tempo dall’ultimo incontro tra l’anziano rabbino e quelli che una volta erano stati i suoi allievi, non era casuale. In seguito a una controversia talmudica conosciuta come l’episodio del Forno di Akhnai, rabbi Eliezer aveva assunto una posizione diversa da quella di tutti gli altri. Nonostante la maggioranza avesse deliberato in senso contrario all’interpretazione formulata da rabbi Eliezer, egli si rifiutò di accettare questa decisione e andò incontro a una sorta di decreto di scomunica che lo portò all’emarginazione. Paradossalmente, approfondendo il passo risulta evidente che fosse rabbi Eliezer ad avere ragione. Era un uomo dal carattere molto duro. Quando si vide comparire davanti i Chachamim, chiese loro perché si trovassero lì. “Per studiare” fu la risposta. Allora lui domandò perché non fossero più andati a studiare con lui fino a quel momento, ed essi risposero che non avevano avuto tempo. Rabbi Eliezer pronunciò parole terribili: “Mi stupirei se qualcuno di voi morisse di morte naturale”. E a rabbi Akiva in particolare disse: “Tu avresti potuto imparare più degli altri, perciò la tua sorte sarà peggiore degli altri”. Sulle affermazioni di Rabbi Eliezer, che poi si verificarono, dobbiamo riflettere molto. Il problema legato al Dono della Torah è quello di riuscire a recepire ciò che ci viene donato poi a trasmettere quello che abbiamo ricevuto. Lo stesso rabbi Eliezer diceva: “Io ho molto studiato la Torah e molto l’ho insegnata. Molto ho studiato, ma non ho imparato dai miei maestri più di un cane che lecca l’acqua del mare per berla. Molto ho insegnato, ma i miei allievi non hanno appreso da me più della quantità di inchiostro di cui si impregna un pennino intingendolo nel calamaio”. Questo ci deve rendere consapevoli che nel perpetrare la Torah, è inevitabile che qualcosa vada irrimediabilmente perduto. Per limitare il più possibile questa perdita, è importante che ogni maestro trovi il giusto allievo, e ogni allievo il giusto maestro, perché lo stesso metodo di insegnamento non risulta altrettanto efficace per tutti. Per questo la colpa di rabbi Akiva è così grave, perché non sfruttò a pieno il suo potenziale. La trasmissione della Torah è anche uno dei temi fondamentali dei Pirke Avot (Capitoli dei Padri), un’opera che si usa studiare nel periodo dell’Omer. Combinando i vari elementi è possibile formulare questa interpretazione sulla ragione per cui nei giorni tra Pesach e Shavuot, gioia e dolore si intrecciano. Il Dono della Torah rappresenta un momento di straordinaria luce, così come la sua fase di preparazione. Allo stesso tempo tuttavia ci carica di una responsabilità formidabile e drammatica, portare avanti quello che ci è stato elargito, misurandoci con il terribile pericolo di rivelarci inadeguati. Esattamente come, quando ci si sposa, non è il momento della festa che dimostra se l’unione funzionerà, ma quello che viene dopo, perché anche nella grande letizia del matrimonio si annida il pericolo che esso fallisca (a Shavuot anche i sette giorni successivi alla festa sono considerati parzialmente festivi). La trasmissione della Torah è indissolubilmente legata alla sopravvivenza dell’identità ebraica. I nostri Chachamim si ponevano il problema consci della sua gravità. Oggi c’è la tendenza a dimenticarlo o rimuoverlo. Ritengo sia arrivato il momento in cui ciascuno di noi debba prenderne coscienza, e assumersi le proprie responsabilità.
Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano
Pagine Ebraiche, maggio 2010