Siamo ancora qui
“Raccontare le nostre edot al Meis” è stato argomento di discussione allo scorso Moked di Milano Marittima (so di aver già parlato di questo evento, ma gli spunti sono tali e tanti da poterne riflettere ancora a lungo). La direttrice del Museo Simonetta Della Seta ha sottolineato innanzitutto che si tratta di un museo dell’ebraismo italiano prima che della Shoah, e che della vitalità ebraica italiana vuole raccontare, a mostrare come non ci siano solo gli ebrei del passato o gli ebrei morti nella Shoah – come sembrerebbe invece dalla lettura di molti testi scolastici dei ragazzi italiani.
Ferrara in questo non è una scelta casuale, avendo avuto una comunità ricca per presenze, provenienze, vitalità religiosa e culturale: di qui sono passati celebri esponenti della diaspora portoghese quali Yehuda Abrabanel, noto come “Leone ebreo” (figlio del celebre filosofo Isaac e a sua volta filosofo e letterato oltre che medico) e donna Grazia Nasì (imprenditrice e filantropa); qui sono nati e hanno vissuto personalità del calibro di Isacco Lampronti (anch’egli filosofo e medico) e Giorgio Bassani, di cui credo basti dire che nell’immaginario ebraico americano rappresenta l’ebraismo italiano all’apice dell’integrazione sulla soglia della catastrofe.
La sfida è rappresentare al MEIS quanto di più moderno l’ebraismo italiano ha da offrire come modello paradigmatico, a partire dalla capacità di accogliere sempre, sia edot di diversa provenienza – dagli schiavi gerosolimitani portati da Tito a Roma nel 70 dell’era corrente ad, appunto, i profughi sefarditi espulsi da Portogallo e Spagna, sino ai più recenti esodi libici, siriani, libanesi – sia gli altri in generale – e qui penso, solo per restare ad esempi molto recenti, all’apertura del Memoriale della Shoah di Milano per i migranti bisognosi di assistenza la scorsa estate.
Ma altri aspetti dell’ebraismo possono rappresentare un modello universale: la sfida di accettare le incertezze e le molteplici appartenenze, il rapporto tra integrazione in altre realtà e preservazione della propria identità, la capacità di mettersi in gioco e di accettare le paure che siamo costretti a fronteggiare.
Perché, come ha scritto Emanuela Dviri in Un mondo senza noi (Piemme 2015, pp. 378-379), “Le mie sorelle e io siamo state cresciute in modo da potercela cavare in ogni situazione, con la valigia e quattro soldi sempre pronti. Abbiamo imparato le lingue, perché non sapere il tedesco fu un problema serio per mio padre quando era in Svizzera. I nostri genitori non ci hanno spedito fisicamente in Israele, ma mio padre ha fatto in modo che ci arrivassimo comunque. […] Mia madre […] ci ha insegnato a non arrenderci mai. A cavarsela sempre. A lavorare sodo. La ricordo alzarsi, dopo il terribile dolore per la morte del papà, decisa continuare a vivere. Dobbiamo farcela. Siamo ancora qui”.
Sara Valentina Di Palma
(11 maggio 2017)