Società – Due Europe per salvare l’Europa

Significa certo qualcosa se a essere sollecitati da uno scritto sul futuro europeo come quello che abbiamo pubblicato sul «Corriere della Sera» del io aprile scorso siano stati solo un certo numero di esponenti politici: nonostante che il maggior spazio di quel testo fosse dedicato al tema dell’identità storico-culturale della Ue. Un nodo preliminare, senza sciogliere il quale noi continuiamo a pensare che nessun altro possa essere sciolto, dal momento che non si è mai visto un soggetto politico che non sappia dire di quale storia anche spirituale si consideri erede. Eppure bisogna constatare che su questo punto decisivo i politici più rappresentativi sembrano non avere nulla da affermare: forse per la paura di dire qualcosa che si riveli troppo impegnativo. Più sorprendente è che in Italia neppure il mondo della cultura si senta spinto a pronunciarsi su un tema simile. La politica e i suoi vari addetti pensano che vengano innanzi tutto le questioni istituzionali. Quelle legate all’identità possono aspettare. Del futuro assetto istituzionale dell’Europa anche noi ci siamo occupati, per la verità. Ma pensiamo che si debba farlo con un minimo senso della realtà. Che cosa vuol dire proporre, come molti fanno, di eleggere subito, appena possibile, un presidente dell’Europa simile al presidente degli Stati Uniti? Sembra che ci si dimentichi che il presidente Usa è il capo dell’esecutivo di uno Stato esistente; che come tale egli è il vertice di tutti gli apparati amministrativi del Paese, ha il potere di iniziativa legislativa, comanda le forze armate e nomina i giudici federali. Di quali di questi poteri l’immaginario presidente europeo di modello «americano» potrebbe oggi mai godere, dal momento che non esiste alcuno Stato europeo? Si è dimenticato che l’Ue non ha una Costituzione? E con quale Congresso il suddetto presidente potrebbe mai interloquire per sottoporgli le sue proposte di legge? E dov’è mai l’armata europea, o la guardia nazionale continentale pronta ad obbedirgli? E quali mai giudici, e per quali corti, egli dovrebbe nominare? Lo slancio in avanti, necessario, non può far perdere i contatti con la realtà esistente. Lo ribadiamo: ciò che a nostro giudizio sarebbe possibile fare realisticamente per cominciare (cominciare!) a dare all’Europa una vera sostanza politica non è inventarsi un impossibile demiurgo alla testa di un organismo statale ancora inesistente, bensì compiere un passo più modesto ma comunque assai significativo. Soprattutto alla portata istituzionale di ciò che l’Ue è attualmente, senza mirabolanti quanto impossibili fughe in avanti. E cioè, lo ribadiamo, un presidente eletto a suffragio universale e diretto da tutti gli europei, il quale sia dotato di tutti i poteri dell’attuale presidente della Commissione (magari opportunamente ampliati) affiancato da un ministro degli Esteri e uno della Difesa, provenienti da un diverso settore geografico. Ciò avrebbe l’indubbio significato di ricollocare il popolo degli elettori al centro del progetto dell’Unione. Checché ne pensino gli antipopulisti senza macchia, in assenza di un popolo effettivo, il suo profilo resterebbe quello, esangue e artificiale, della tecnocrazia oligarchica di Bruxelles e di Strasburgo. Ma tutto ciò resterebbe pura ingegneria istituzionale senza la premessa indispensabile di una chiara identità storico-culturale. In mancanza della quale qualunque Europa politica resterà un sogno. E allora ci chiediamo a questo riguardo: quali altri riferimenti esistono se non quello delle radici ebraico-cristiane e illuministiche da un lato e quello del rapporto tra mondo latino e mondo germanico dall’altro, opportunamente incrociati tra loro? Sono le prime che ci obbligano per esempio ad accogliere gli immigrati (ma anche a farlo razionalmente, adottando le cautele e i controlli necessari). O, per fare un altro esempio, a indicare all’Europa che voglia essere politica, e avere quindi un’identità riconoscibile, dei confini conseguenti. Ciò che vuol dire, in termini concreti, riconoscere apertamente che la Turchia non può far parte dell’Unione né può avere da questa l’appalto del flusso migratorio. Non basta. Sempre le radici di cui sopra dovrebbero spingere l’Europa politica anche a una preliminare opzione di solidarietà nei confronti di Israele, pur riservandosi, ovviamente, la facoltà di criticare pure nel modo più aspro le sue politiche antipalestinesi. Così come, per ciò che riguarda l’atteggiamento nei confronti dei cittadini extraeuropei residenti nei nostri Paesi, se va approvata senza reticenza una legislazione generosa per dare loro la cittadinanza, si deve pur esigere da essi un livello di integrazione adeguato. La quale, tanto per cominciare impedisca — si ricorra anche ai più duri provvedimenti legislativi — tutte quelle pratiche lesive nel fisico e nel morale della persona delle donne. Circa il rapporto tra latinità e germanesimo la necessità di riequilibrare i loro rapporti era stata già posta, alla fine della Seconda guerra mondiale, dal filosofo francese Alexandre Kojève in un saggio su L’impero latino. Dove s’intuiva, quando era ancora coperta di rovine, che la Germania sarebbe presto diventata la forza economica di gran lunga prevalente in Europa. Rispetto alla quale la Francia, se non avesse voluto diventare un semplice satellite, avrebbe dovuto creare un’alleanza organica con Italia e Spagna, capace di competere sia col blocco anglosassone sia con quello russo (allora sovietico). Se si pensa che le previsioni di Kojève si sono perfettamente avverate, ci chiediamo se, pur in una situazione drasticamente mutata, anche della sua fantasiosa ipotesi non resti qualcosa. A caratterizzare il mondo latino è da un lato una modalità cattolica, diversa da quella protestante, di sentire la vita. Ma tale distinzione resterebbe confinata al piano della psicologia dei popoli se non si calasse dentro dinamiche geopolitiche concrete. Che significano innanzitutto la diversa relazione con l’alterità, contraddistinta in un caso dal mare e nell’altro dalla terra. Il rapporto con il mare, per i Paesi mediterranei, vuol dire innanzitutto molteplicità. Una pluralità costitutiva che rende spesso eterogenee le loro terre (e quindi anche le disposizioni mentali delle loro popolazioni). Quali parametri comuni adottare per Catalogna e Italia meridionale, Provenza e Grecia, Portogallo e Padania? La soluzione non può essere quella di ingabbiare tali differenze in una rete astratta di regole comuni, ma di renderle produttive per uno sviluppo articolato, e un punto di vista plurale. Rapporto con il mare significa anche una relazione costante con la costa africana e mediorientale. Cioè essere in prima linea rispetto all’emigrazione ma anche rispetto all’Islam in tutte le sue componenti. Un compito, come si capisce, estremamente problematico, al quale l’Europa intera non può fare mancare l’appoggio perché ad esso destinano la geografia e la storia: basta pensare alle relazioni storiche con l’Oriente che hanno avuto la Spagna, la Grecia, l’Italia tutta da Venezia alla Sicilia e anche, in altro modo, la Francia. Quanto al mondo che possiamo definire in senso lato germanico, invece, è singolare vedere come si stia realizzando il disegno di un altro grande intellettuale europeo — parimenti, se non più, ambiguo di Kojève, vale a dire Carl Schmitt. Che, negli stessi anni del saggio sull’impero latino, elaborava, pensando alla Germania, il suo concetto di «grande spazio». Certo, un grande spazio che oggi ha un profilo essenzialmente economico, privo di intenzioni egemoniche sul piano politico. Ma conserva l’idea di fondo di un nucleo germanico al centro di una corona di Stati integrati con l’economia tedesca. A caratterizzarlo, diversamente dal mondo latino, è la relativa omogeneità dei protagonisti. Con in più, nel caso del mondo germanico, una generale predisposizione a conformarsi a strette regole di comportamento anche sul terreno socio-culturale: ciò che vale indubbiamente a spiegare molto bene, per esempio, l’ordoliberalismo tedesco con il suo governo disciplinare della società inteso a tenerla al riparo dai rischi del caos, del disordine, dell’indebitamento (la Grecia ne sa qualcosa). Ma per cogliere fino in fondo l’atteggiamento del grande spazio tedesco, bisogna tenere conto dello spazio, ancora più grande, che si stende ai suoi confini orientali. All’opposto dell’alterità islamico-orientale con cui si trova alle prese la latinità mediterranea, l’alterità cui è legata da mille fili ma anche da mille tensioni la Germania, è la Russia. Un’alterità che se da un lato l’attrae, come ha sempre fatto, dall’altro però, a causa della sua natura intimamente antiliberale, contrasta in misura radicale con l’attuale spirito pubblico tedesco. Il quale, peraltro, è chiamato pure a fare i conti con la spinta illiberale di gran parte dei Paesi dell’Europa orientale, a lei vicini ma spinti a utilizzare la Germania in chiave antirussa. Come non rendersi conto che, per allentare questa pressione, la Germania può trovare un alleato prezioso proprio in quei Paesi mediterranei da cui invece prende spesso le distanze con una punta di disprezzo? Insomma, se «d’impero latino» non può fare a meno dei Paesi centrali per gestire il suo mare, il «grande spazio tedesco» non ha forse bisogno dei Paesi mediterranei per governare la sua terra ad oriente? In realtà solo la compresenza, con diverse funzioni, dei due mondi, latino e germanico, può consentire a un’Europa divenuta politica di svolgere il proprio ruolo al pari degli altri protagonisti mondiali. Non è venuto il momento di provare a pensare l’Unione anche sotto questa luce?

Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 14 maggio 2017