MEMORIA Due bambine e la Shoah

konarAffinity Konar / GEMELLE IMPERFETTE / Longanesi

Ammesso che la memoria della Shoah ci interessi ancora, venuti meno i testimoni (per ragioni naturali) e giunti a un’età di rassegnazione i loro figli, essa può aver luogo solo nella trasfigurazione della realtà, nel rendere verosimile una verità; o, se vogliamo, nella creazione della verità artistica credibile perché capace di parlare ai nostri cuori e dirci qualcosa sulla nostra contemporaneità. Creare quel tipo di romanzi e opere d’arte è compito ormai della “terza generazione”, dei nipoti dei sopravvissuti. E quanto tenta di fare la trentanovenne americana Affinity Konar nel suo romanzo Gemelle imperfette, molto acclamato dalla critica d’oltreoceano. Konar racconta, con un tono delicato, talvolta usando un registro che sfiora il magico, la vicenda di due gemelle dodicenni, Pearl e Stasha Zamorski, deportate ad Auschwitz e sottoposte alle sperimentazioni del dottor Mengele. Il romanzo procede per monologhi alternati delle due sorelle, che a loro volta descrivono l’ambiente in cui regna il medico padrone della morte, nel campo di sterminio diventato la sineddoche della Shoah. Sono pagine difficili da leggere, dove è forte la tentazione di lasciarsi andare a una troppo facile commozione. Troppo facile, per due motivi. Il primo: perché spesso le nostre lacrime per i bambini assassinati ad Auschwitz non ci dicono niente dei loro coetanei, annegati nel Canale di Sicilia e, anzi, ci forniscono un alibi per non vedere i sommersi di oggi. Il secondo: perché esiste ormai quello che Imre Kertész chiamava il “kitsch dell’Olocausto”. Konar, per fortuna, non rientra in nessuna di queste categorie; la sua consapevolezza di cosa sia il mondo contemporaneo traspare dal modo in cui racconta le sue storie, anche se talvolta esagera nel voler dimostrare il suo virtuosismo (esercizio inutile quando si cerca di dire l’indicibile). Il grande pregio del romanzo sta nel coraggio dell’autrice, nel suo aderire all’etica della letteratura, per cui le cose vanno raccontate con empatia e con una grande attenzione all’aspetto formale e senza timore di poter risultare ambivalenti. Le cose che Mengele fa alle ragazze sono orribili e inimmaginabili; il suo gioco, oltre alle sofferenze inflitte (che Konar racconta senza cedere al voyeurismo o sfiorare una morbosa complicità del lettore e che si basano su un’ampia letteratura di testimoni, citata in appendice) crea un mondo Altro, radicalmente nichilistico, dove tutti i valori e tutti i linguaggi vengono rovesciati: uccidere è bene; torturare è una virtù; amare è una debolezza imperdonabile (alla lettera, chi ama merita la pena di morte). Konar ci fa entrare nei corpi distrutti e nelle menti delle due ragazzine, ci fa partecipi del loro viaggio e del dispiegarsi della loro speranza e del loro desiderio, nonostante tutto. La dimensione della speranza e del desiderio non è retorica, perché l’autrice riesce a riportarla all’essenza del nostro essere umani. E anche per questo, il libro è stato acclamato. E tuttavia c’è un altro aspetto che viene in mente leggendo Gemelle imperfette. Il romanzo è anche una testimonianza di come la Shoah sia ormai parte della cultura popolare americana; come quelle vicende accadute in Europa siano state private del loro contesto linguistico e territoriale, considerato irrilevante per la grande narrazione americana. Nessuna ragazza in Polonia poteva chiamarsi Pearl, casomai Perla; o Stasha, casomai Stasia. Le bambine sono cresciute in una casa di persone coltissime, professori e dottori, e dove hanno imparato le lingue e a suonare il pianoforte (come le loro coetanee ebree oggi a Manhattan o a Santa Monica, Los Angeles), ma chiamano il loro nonno con l’appellativo yiddish “zayde” (come fanno appunto, con nostalgia, a Manhattan e Los Angeles). Ora in una simile famiglia di ebrei polacchi, lo yiddish sarebbe stato bandito in quanto dialetto volgare a favore del polacco, idioma dell’integrazione della borghesia. Ma poi, forse, sono solo dettagli più da sociologia della letteratura che da critica intrinseca.

Wlodek Goldkorn, Repubblica Robinson, 21 maggio 2017