Forse non tutto è perduto

Sara Valentina Di PalmaScrive Yehudit Hendel in I villaggi del silenzio: diario di un viaggio in Polonia (Guida 2000) a proposito del suo ritorno nel Paese dove nacque e da cui fece aliyah ancora bambina in epoca del mandato britannico, che “È impossibile liberarsi dalla sensazione che la Polonia sia un unico immenso cimitero ebraico” (p. 45), e che la vita ebraica esiste, appunto, solo nei cimiteri e negli archivi. Ciò è in parte cambiato negli ultimi decenni, ma è pur vero che la popolazione ebraica continua a contare numeri miserrimi rispetto a prima della catastrofe.
Ciò mi ha fatto rammentare il grande disagio con cui ascoltavo l’entusiastico racconto di un viaggio in Polonia di un’amica (ebrea), la quale mostrandomi diverse fotografie di tracce dei padri, nel contempo ricordava come a Przysucha la sinagoga sia stata a lungo usata come magazzino e stalla, per restare poi chiusa in abbandono, mentre a Tarnów solo un recinto ricorda l’area dove sorgeva il Tempio; a Kazimierz Dolny l’ex sinagoga fu adibita a cinema e a Gorlice i resti di una sinagoga sono stati recentemente abbattuti mentre il secondo Bet haKnesset è oggi un panificio. In quel momento ho pensato che avrei cercato di tenermi ben lontana da luoghi ove la perdita di vita ebraica possa essere tangibile.
Ecco però, a complicare le cose, un piacevole fine settimana a Mantova. Sarei andata volentieri al Tempio per Shacrit di Shabbat, ma non c’è minian né chazan. In compenso, ha tenuto per noi una visita molto interessante, il giorno seguente, il presidente della Comunità con cui condivido affetti senesi. Una sinagoga che è quasi un museo, usata solo per le principali feste ed abitualmente frequentata da scolaresche ad uso didattico. Del resto, nella seconda metà dell’Ottocento erano state demolite due sinagoghe di rito tedesco ed una terza ad inizio Novecento, altre due di rito italiano sono scomparse nel 1929 e nel 1938.
D’altronde non bisogna andare a Płaszów per scoprire resti di lapidi funebri usate per lastricare le strade del campo di concentramento, sorto spianando i due cimiteri di Cracovia e Podgórze: sempre a Mantova, c’è almeno un frammento di stele sepolcrale usata per pavimentazione, mentre un’altra orna la base di un caminetto. In provincia, a Cerese, vi sono persino due cippi cilindrici funebri in stile ottomano riutilizzati come colonne davanti ad una ex pizzeria – uno dei quali dedicato ad un importante maestro, Avraham Yedidiah Basilea, morto all’uscita di Shabbat nel 5508.
Ma, mi voglio ostinare a pensare, se non abbiamo più la parlata giudaico-mantovana testimoniata ancora nelle poesie del medico e mohel Annibale Gallico un secolo fa, qualcosa pur resta nella parlata locale, in cui il furbacchione è il ‘ganao’ (da ‘ganav’, ladro), come testimonia Vittore Colorni (La parlata degli ebrei mantovani, in “La Rassegna Mensile di Israel”, 36, N. 7/9, Scritti in memoria di Attilio Milano, Luglio – Settembre 1970, pp. 109-164, qui p. 148). E poi, guardando la foto del Bat Mitzvà di Lidia davanti al pozzo di casa sua dopo la guerra, e la foto di tre bambini ebrei davanti allo stesso pozzo, forse non tutto è perduto.

Sara Valentina Di Palma

(25 maggio 2017)