A destra della crosta terrestre

torino vercelliSul piano della ricerca del monopolio nell’eversione agli ordinamenti democratici, tra le forze del passato e quelle del presente non esiste necessariamente un effetto di sostituzione. Semmai è meglio parlare di sovrapposizione e di concorrenzialità, a volte oppositiva, altre volte compensativa o comunque transitiva. In altre parole: non è vero che una emergenza sostituisca l’altra. Cerchiamo di capirne qualcosa. Se la scena del terrorismo continentale è oggi dominata dall’angosciante manifestazione del terrorismo islamista, destinato purtroppo ad accompagnare a lungo le società a sviluppo avanzato, la presenza del neofascismo e del neonazismo in Europa non si è per nulla arrestata. Ancorché apparentemente contrapposti in alcuni loro capisaldi di fondo, i radicalismi a matrice religiosa e quelli di natura politica trovano infatti alcuni comuni denominatori nel loro agire. Tra di questi, i tentativi di dare corso al reclutamento di simpatizzanti, sostenitori e militanti, attraverso la legittimazione della prevaricazione sistematica, con una proposta d’azione del tipo: “sii tu stesso parte attiva di questo meccanismo” (la militanza identitaria); quindi, la messa in campo di una strategia d’azione basata sulla violenza che, se in molti casi, raccoglie il biasimo, il discredito e quindi il rifiuto della maggioranza della popolazione, tuttavia non ad essa si rivolge bensì a soggetti predeterminati, i quali ne subiscono invece un vero e proprio effetto di fascinazione (anche in ragione proprio del rifiuto dei più); il ricorso da una persistente e martellante offensiva ideologica, dove gli obiettivi ossessivamente richiamati sono essenzialmente tre: l’enfatizzazione dell’appartenenza ad un gruppo di “iniziati” e di predestinati, per il fatto stesso di condividere dei convincimenti radicali e irriducibili a qualsiasi mediazione; l’odio materiale, che si fa concreto disprezzo fisico, nei confronti della collettività (alternativamente presentata come composta da miscredenti, da apostati, da “nemici”, da inani, imbelli e inetti che “non meritano di continuare a vivere” se non come subalterni); l’avversione sistematica per il liberalismo, inteso come filosofia politica basata sulla centralità dell’individuo nell’esercizio della sua libertà di scelta, così come per la democrazia sociale e partecipativa, ridotta a oclocrazia, il governo fatto dalle moltitudini disordinate e degenerate. Il neofascismo sta dentro questo tracciato, al medesimo tempo vecchio e nuovo. Bisogna prendere coscienza che la sua concezione reazionaria delle relazioni umane, così come il suo violento ritorno sulla scena, a partire da alcuni paesi dell’Est che i conti con il loro passato li stanno facendo alla rovescia, ne denunciano l’attualità. Per coglierne l’emergenza non c’è bisogno di assistere all’adunata di camicie nere, al Musocco di Milano, oppure ai pellegrinaggi predappini o, ancora, alla crescente presenza di CasaPound insieme alle minacce, anonime o firmate che siano, nei confronti di quei giornalisti che indagano sul sottobosco neofascista. Sono solo alcuni tra gli estremi, altrimenti falsamente liquidati come residuo folcloristico, di una presenza invece carsica che, come tale, mai è venuta meno nel corso del tempo. Negli ultimi decenni ha poi trovato nuova linfa. Il transito consumatosi in questi ultimi trent’anni, infatti, è stato segnato dal ritorno di temi e di motivi che sono passati, dal loro originario essere patrimonio di piccole nicchie, quindi ai margini della scena politica, ad oggetto di discussione e di considerazione nell’agenda dei governi e dell’opinione pubblica. C’è chi ha scritto, riferendosi al linguaggio, che: «gli usi delle parole costituiscono, soprattutto nello spazio pubblico, strumenti fondamentali di lotta politica, perché hanno l’effetto di determinare cosa può essere detto e cosa no in una congiuntura specifica. Rendono cioè lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili. Per questa ragione le trasgressioni linguistiche sono sempre state tra i principali strumenti utilizzati per condurre dei colpi di mano in politica». Più che con un ritorno del “fascismo” classico, abbiamo a che fare con uno spostamento dell’asse politico verso alcune sensibilità tipiche della destra radicale. Il linguaggio adottato nella discussione pubblica ne è un indice rilevante: si tratta dello “sdoganamento” di parole dietro alle quali si cela un universo mentale che si fa proposta politica. Un fatto che ha investito una parte sia dell’Europa che degli Stati Uniti. Con riflessi anche in altre parti del mondo (l’India hindu, ad esempio), laddove i processi di globalizzazione hanno ulteriormente agevolato le capacità espansive di atteggiamenti, pensieri e condotte basate sull’intolleranza sistematica. Fermo restando che una facile e diretta equazione tra fondamentalismi, neofascismi e intolleranza, da sé spiega molto poco. Dovremmo semmai interrogarci sul perché gli accentuati autoritarismi, profondamente illiberali ai limiti del liberticidio, raccolgano, come nel passato, un crescente seguito. Non solo di militanza ma, più in generale, di consenso. Tacito finché occorre, poi manifesto quando se ne creino le condizioni per la sua emersione. È infatti netto e indiscutibile il nesso tra questo andamento, che si intreccia con la dirompenza dei sovranismi e degli identitarismi, con la persistente egemonia culturale di un discorso politico dominante che dice agli individui che, nei momenti del bisogno, non hanno altro a cui affidarsi se non se stessi. Il ritorno della tentazione fascista sta nel fatto che essa offre di sé un’immagine protettiva: se ti senti abbandonato dalle istituzioni, se ti ritieni leso nei tuoi diritti, se temi di essere espropriato di ciò che hai ma che pensi possa esserti ingiustamente sottratto, noi potremmo essere la tua soluzione. Poiché qualsivoglia fascismo, trascorso come presente, veste da sempre i panni sia della distruzione del “nemico” sia della tutela degli omologhi a sé. E non a caso ricorre continuamente ai discorsi sull’«identità», sulla «terra» (intesa come «sangue e suolo»), sullo «straniero», sull’«invasione» e sulla «minaccia», sul «popolo e la morale» (soprattutto nel senso di una ipotetica rottura dell’ordine naturale, sul quale si fonderebbe qualsiasi etica pubblica, e della funzione della politica come strumento per ripristinarlo), sull’«élite traditrice contro il popolo autentico» (ovvero della lotta dal basso contro l’alto), quindi sulla «prossimità» tra identici e la «distanza» rispetto ai «diversi». Il declino della democrazia partecipativa ne è il suggello, insieme al riaffermarsi della liceità delle diseguaglianze più esasperate come paradigma di fondo delle nostre società. Dopo di che, stabilito un primo legame di causalità, non basta fermarsi ad esso. Il radicalismo di destra, che non è più la stanca riedizione dei regimi degli anni Trenta, avendo sviluppato semmai una sua autonomia politica da quelle esperienze storiche, si presenta oggi come una complessa e stratificata galassia. I moventi e le radici, insieme agli sviluppi e alla sua capacità di adattarsi alle condizioni date, inducono quindi a parlare più di «estrema destra postindustriale» ( sulla scorta di quando già il politologo Piero Ignazi sottolineava anni fa) che non, in senso più stretto, di fascismo di ritorno. La cifra comune, tra i diversi movimenti che affollano la scena continentale, è un radicalismo non solo politico ma anche culturale e morale. Come tale dichiarato, rivendicato e compiaciuto di sé. Si tratta di un’area rumorosa che, in più circostanze, si intreccia, mantenendo irrisolti rapporti di contiguità e scambio, con le destre di governo. Trova oggi nell’Ungheria, e più in generale nell’area dei paesi del gruppo di Visegrád, il vero laboratorio di una trasformazione che rinverdisce il passato e attenua ogni speranza per un pluralismo a venire. L’intreccio tra gli autoritarismi di una parte dell’Est europeo e le “democrature” dei vari Putin ed Erdogan, come anche dei regimi – più o meno solidi o decadenti – di un Assad (al quale molta parte del neofascismo italiano guarda con simpatia) piuttosto che dello sciismo iraniano, al di là dei giochi geopolitici e delle mutevoli alleanze, fanno da cornice alle singole evoluzioni nazionali. Ne sono una sorta di ventre molle, nel quale svilupparsi. Se per un certo lasso di tempo il vincolo antifascista aveva impedito tali invasioni di campo oggi, invece, sono molto spesso bene accette. È questo, senz’altro, il punto dolente: abbiamo a che fare con un neofascismo da salotto buono, la cui funzione è di rendere non solo culturalmente leciti ma anche socialmente plausibili esercizi di autoritarismo della cui traduzione in atti concreti si incaricano poi forze politiche falsamente moderate. Ancora una volta l’Ungheria di Orbán ha qualcosa da insegnarci, al riguardo. È un gioco di reciprocità, che sta producendo i suoi effetti. La destra radicale vive peraltro la crisi di rappresentanza delle sinistre, riformiste e non, come un’opportunità senza pari. Fondamentale è, per il suo programma, rielaborare i legami sociali da un punto di vista etnico. Il suo punto di forza è che parla ad un’intera collettività, denunciandone i problemi (invece volutamente omessi in campo liberale), ma offrendo di essi una soluzione dichiaratamente regressiva. Alla società sostituisce il concetto di comunità, quest’ultima costituita da soggetti affratellati da vincoli di sangue e di reciprocità etnica; ai percorsi di spaesamento e di smarrimento della soggettività contrappone l’idea di una identità forte, basata sul binomio, già richiamato, tra «sangue e suolo»; contro il senso di espropriazione materiale e di subalternità economica statuisce l’idea che la difesa degli interessi sia prerogativa di un tradizionalismo che trova nella cristallizzazione feudale delle appartenenze la sua falsa realizzazione; alla farraginosità dei sistemi rappresentativi risponde con il ricorso all’autorità carismatica e all’insofferenza verso i diritti. Tre però sono i fattori di maggiore tensione: il declino della democrazia partecipativa, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti continentali delle immigrazioni. Tutti e tre segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che ne accompagnano l’evoluzione. Dalla insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto sociale del lavoro, oramai retrocesso a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo politico sta traendo un significativo giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai da una parte della stessa sinistra, declinandola però sul versante delle appartenenze etno-razziali. E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il volto del «mondialismo» giudaico. Non è una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica come fattore di aggregazione e di proselitismo, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi. Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di società in via di veloce invecchiamento, il recupero in chiave fobica di due temi quali l’omosessualità (intesa come manifestazione di perversione della «natura umana») e l’immigrazione (segno di contaminazione) diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti. Il neofascismo si presenta quindi, nella sua essenzialità, come un discorso sulla necessità di rimoralizzare una società che avrebbe perso i suoi autentici «valori»: in campo pubblico, dove tutto sarebbe malaffare, latrocinio, pandemonio, confusione e distruzione; in campo privato, dove sarebbero prevalse le spinte “contro-natura”, indirizzate a disgregare, attraverso le politiche dei diritti civili, la “naturale gerarchia” tra aristocrazie morali e subalterni. Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che c’è e che avrebbe fallito: la democrazia. Di fatto, professando queste posizioni, ambisce a portare a compimento lo smantellamento brutale dello Stato dei diritti per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia, rimanendo in uno stato di mobilitazione spasmodica. In tale modo si candida a rappresentare e a governare parti delle nostre società abbandonate a sé. Ancora una volta in un gioco di specularità con una qualche parte più rispettabile della comunità politica, di cui spesso si rivela essere un imbarazzante ma necessario alter ego, svolgendone il «dirty job» di dire ciò che altrimenti sarebbe interdetto dall’arena pubblica. Consapevole che la variabile del tempo potrebbe risultare a suo favore. Non torna il fascismo storico ma senz’altro declinano la democrazia e il pluralismo.

Claudio Vercelli

(28 maggio 2017)