…quesiti

Mi sono sempre chiesto quanto contino nell’ebraismo le intenzioni e quanto le azioni, quanto la teoria e quanto la prassi, quanto le mitzwoth che ci mettono in relazione con Dio e quanto le mitzwoth che ci mettono in relazione con gli uomini. Nessuna risposta che ci si dia, o che ci venga data, risolve il quesito. Tequ. È sin troppo facile affermare che ogni mitzwah ha lo stesso rilievo, pur nella distinzione fra mitzwoth ‘de’oraita’ (che ci derivano dalla Torah) e mitzwoth ‘derabanan’ (che ci derivano dai Maestri).
Il quesito sale alla mente con urgenza ogniqualvolta ci si trovi in sinagoga. Non con regolare frequenza purtroppo, per difetto personale. Quando tuttavia ci si va è per cercare di concentrarsi, per quel che si può, nella preghiera. Io ci vado per unirmi a un rito che ha visto partecipare mio padre, e suo padre prima di lui, e il padre di suo padre, e via di seguito, all’indietro per almeno ventiquattro generazioni, o giù di lì. Ventiquattro generazioni sempre qui, a Venezia. In una sinagoga o nell’altra, poco conta. Questo senso della continuità e la volontà di non interromperla l’ho sempre avuto molto vivo, non so come, non so perché. Forse la Shoah. Forse mio padre e mia madre, magari anche inavvertitamente. Ma si trattava certo di una caparbia inavvertenza.
Al Beth haKnesset ci vado, come molti immagino, un po’ per il rito religioso un po’ per un rito sociale. Lo ammetto, sono un ortodosso mancato, fin dai tempi lontani del Bene’ Akiva. Ho acquisito, e in seguito abbandonato, un’osservanza che mi è sempre rimasta cara. Anche quando ho mantenuto i valori senza mantenere allo stesso tempo la prassi. Un modo discutibile di mantenere i valori, lo ammetto.
Quando dunque entro in sinagoga è per esserci, e per partecipare. Lì ti accompagni e ti misuri con chi ci viene saltuariamente, con chi ci viene assiduamente per pura abitudine, con chi ci viene assiduamente per regola. Ti unisci alle melodie, e ti rammarichi che, ad ogni nuovo hazan, la tradizione dei niggunim venga sempre più deformata e storpiata. Ti lamenti, e tuo figlio, vicino a te, si lamenta dei tuoi lamenti. Insomma, al Beth haKnesset entri per unirti in un minian e arriva sempre il momento in cui ti vien voglia, contraddittoriamente, di isolarti.
Ed è così che iniziano di solito i quesiti che ti distraggono dalla preghiera. Ti chiedi, per cominciare, se nessuno mai ci abbia insegnato come ci si comporta in un Beth haKnesset, che non è la casa di ciascuno di noi preso singolarmente, ma la casa di riunione di tutti noi messi insieme, fatta perché ci si conviva per quel che dura la funzione. Una funzione che, anche per modalità, dovrebbe gratificare un po’ tutti. Ti chiedi allora se sia giusto che si trascurino quelle melodie che hanno tenuto insieme le voci e i sentimenti di tanta comunità che è passata per questa sinagoga, e che in questa sinagoga, e nei suoi canti e nelle sue musiche, ha trovato coesione e ha riconosciuto se stessa. Forse anche questo richiede rispetto. Forse non allo stesso livello del rispetto per lo Shabbat o per la casheruth, va ammesso, ma un rispetto che ha ugualmente diritto di cittadinanza, e diritto alla sua dignità. È, fra le altre cose, un rispetto che si deve a chi viene al tempio, magari per motivi diversi da quelli di qualcun altro, ma, per il fatto stesso che viene, a quel rispetto ha pieno diritto. A meno che non gli si voglia dire che la sua presenza è superflua e che, se decide, può starsene a casa ad ascoltare un disco. Magari anche a costo di mettere a rischio il minian.
Cominciano così gli interrogativi. E proseguono chiedendosi se sia giusto e rispettoso che i bambini scorrazzino da una parte all’altra del Beth haKnesseth come se giocassero per la strada, mentre la gente cerca di pregare e magari concentrarsi. Si dirà che è meglio che i bambini vengano e disturbino piuttosto che non vengano affatto. Sante parole. Ma, prosegue il quesito, è possibile concepire un limite al disturbo? Se il chiasso dura per tutta la funzione? Se annulla in modo fastidioso il silenzio della ‘’amidà’, impedendo qualsiasi concentrazione? O se il pianto disperato e ininterrotto di un bimbo copre la voce del Cohen che cerca di concentrarsi nella Berakhà e di farsi sentire dal pubblico? Esiste un limite all’espressione della libera gioia dei bambini? Ed esiste un limite alla libera noncuranza dei loro genitori?
‘Asé lecha rav’, intima il Pirkei Avoth. Fatti un rav. Ma se il rav non me lo sono scelto io secondo i miei gusti e, per un qualsiasi motivo, non mi piace, ho il diritto di mettermi a chiacchierare con i miei vicini mentre lui sta facendo il suo Dvar Torah, ostentandogli così, nel modo più offensivo, il mio disinteresse per ciò che dice?
A questo punto, mi chiedo sempre che peso abbia, nella scrupolosa graduatoria dell’osservanza, il rispetto dello Shabbat se confrontato con la mancanza di rispetto per il rav della comunità. Perché quando si voltano le spalle a un rav si voltano le spalle a tutta la comunità che egli sta guidando e a cui sta rivolgendo le sue parole, e che sta cercando di ascoltarlo. Ed è la comunità con la quale si presume si stia facendo minian. Ma si può fare minian con coloro verso i quali si mostra disprezzo o anche solo disistima?
Il quesito è assai più generale e più profondo, alla fine, e di non poco peso per la nostra osservanza dell’ebraismo. Quanto conta, per noi, il rispetto per l’altro, sia egli rabbino o meno? Si può, purché si osservi lo Shabbat e la casheruth e si mettano i tefillin tutte le sante mattine, si può odiare il prossimo? Lo si può umiliare in pubblico? ‘Malbin pnéi chaverò barabbim’ è anch’essa una mitzwah o non lo è? Si può giudicare impunemente il prossimo con il giudizio sommario delle proprie opinioni? ‘’Al taddin eth chaverekhà ’ad shetaghia limqomò’ è anch’essa una mitzwah o ce ne possiamo esentare? Si può mentire, e si può fare, e diffondere, maldicenza? Possiamo denigrare l’altro e diffamarne personalità e ruolo con illazioni e pettegolezzi? Perché il Talmud assimila la maldicenza all’idolatria, all’incesto e all’assassinio insieme (Arachin 15b)? Perché considera l’odio gratuito come causa della distruzione del secondo Tempio (Yoma 9b)? Perché il Chafetz Chaim avrebbe trascorso la sua vita a scrivere sull’etica della parola e sulla maldicenza?
Che ruolo ha nella nostra cultura, nel nostro ebraismo, il rispetto per il prossimo? Pesa più o meno di una goccia di latte caduta per errore in un pentolone di brodo di carne? Possiamo anche solo disturbare la preghiera del nostro vicino ritenendola meno importante o meno ispirata o di minor valore della nostra? Possiamo offendere un rav che parla dalla ‘bimà’, voltandogli le spalle per chiacchierare, ostentando a lui e a tutta la collettività il nostro sprezzante disinteresse per lui e per quel che dice?
Sembra evidentemente a qualcuno che, purché si osservino scrupolosamente le mitzwoth del fare, ci si possa tranquillamente esimere da certe mitzwoth dell’essere. Ma sono proprio mitzwoth dell’essere quelle che mettono l’individuo in relazione con il prossimo, le mitzwoth ‘ben adam lechaverò’. Sempre che del prossimo non si pensi di poter fare a meno, sempre che del prossimo non ci si senta infinitamente superiori.
Ma forse questo non è un giusto modello di ebraismo per la comunità. Quando si è usi zittire chi parla durante una preghiera bisogna anche essere pronti a zittire se stessi.
Se il contrario del rispetto è l’arroganza, vien fatto di chiedersi se l’arroganza sia una delle 613 mitzwoth da osservare, o se esista un’altra possibile interpretazione ai miei quesiti. Ci sarà un rav che me la dà questa interpretazione? E ci sarà mai un rav che insegni alle nostre comunità, agli adepti non meno che agli ebrei originari, ai frequentatori saltuari non meno che ai frequentatori assidui, che è sul rispetto reciproco che si fonda una comunità? E che il ‘Veahavtà lereakhà kamokha’ (‘ama il prossimo tuo come te stesso’, Vaiqrà 19:18) è proprio di questo che parla, e non di altro. E lo fa con la voce della Torah, non con quella dei rabanan. A quanto si dice, dovrebbe essere questo il principio fondante del nostro stare assieme, uniti in quello che non a caso si chiama Beth haKnesset. Ma forse anche ‘Veahavtà lereakhà kamokha’ non è una mitzwah. O forse il prossimo è solo se stessi e gli stretti familiari.
Si auspica non sia per battaglie personalizzate che si sconvolgono i rari e fragili brandelli di armonia che ancora legano una comunità in disgregazione. A volte, convinti di star battendosi per il bene della Torah, si crea un clima di guerra permanente che, servendosi di ogni pretesto, porta la comunità allo sfascio morale e sociale. Capita allora che, in nome della Torah, la coscienza chieda di fermarsi e fare un passo indietro. E ciò nel rispetto di un altro principio cardine che non si dovrebbe trasgredire, ‘’Al tifrosh min hatzibbur’. Perché ci si può separare dalla comunità in senso fisico, ma ci si può separare da essa anche procedendo dritti verso l’isolamento morale.
In una comunità in cui non si esercitino i requisiti minimi del rispetto, il rischio è che venga meno il senso del minian, e il minian stesso. Il rischio è che ci si chieda se e con chi valga la pena di fare minian, quando, pur con difettosa saltuarietà, ci si reca al Beth haKnesset.

Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia

(6 giugno 2017)