Periscopio – Il sogno sionista
La recente conclusione del corso sul sionismo da me svolto, su incarico dell’Area Formazione e Cultura dell’UCEI, presso la Comunità Ebraica di Firenze (che ha fatto seguito alla conclusione dell’analogo corso tenuto presso la Comunità di Napoli, terminato poco prima), ha colpito l’umile docente con molte, diverse emozioni: gratificazione per l’onore ricevuto, soddisfazione per i risultati raggiunti (forse non completamente disprezzabili); ammirazione per la bravura degli “studenti” (in realtà, i veri maestri del corso, dai quali ho imparato tantissimo); gratitudine per l’affetto e l’amicizia ricevuti (di cui si è voluto lasciare un segno tangibile con il bellissimo dono di una pregiata Menorah, che fa bella mostra di sé nel salone di casa mia); e, ovviamente, com’è giusto e naturale che sia, anche un po’ di malinconia per la fine di una così bella esperienza.
Dopo avere parlato, nelle undici precedenti lezioni, di argomenti belli “tosti” (spazio, tempo, pace, guerra, diritto, diplomazia, politica, antisemitismo, odio, violenza ecc.), abbiamo deciso di chiudere, letteralmente, “in bellezza”, dedicando il dodicesimo e ultimo incontro al linguaggio dell’arte, e segnatamente alla varie rappresentazioni che del sogno sionista hanno saputo dare, negli ultimi decenni, gli artisti ebrei e, in particolare, israeliani. Rappresentazioni di cui, al di là dei pregi estetici, si è cercato di interpretare il messaggio profondo: alla ricerca, forse, di qualche piccolo segno di speranza (tanto difficile da trovare, purtroppo, sul terreno della razionalità). O, anche, più semplicemente, di qualche emozione, di qualcosa che ci permettesse di chiudere il nostro percorso andando alla radice nascosta delle ragioni che ci hanno indotto a iniziarlo: che non vanno cercate sul piano della ragione, ma su quello del cuore. Ed è sembrato certamente un segno da interpretare il fatto che la nostra ultima lezione sia coincisa con il festeggiamento di Yom Yerushalaim, che abbiamo condiviso insieme, allo “squillare della campanella”, senza alcuna soluzione di continuità, semplicemente scendendo di un piano e trasferendoci in una sala più grande. Magari avessi avuto, ai tempi della scuola, dei compagni di classe così! E magari avessi avuto la voglia di apprendere, di comunicare e di partecipare che ho ora! Ma la vita è questa, inutile lamentarsi: i ragazzi fuggono dai libri per correre dietro alle ragazze, lo ha scritto Shakespeare, è giusto così.
Abbiamo parlato del sionismo nell’arte, quindi: nei colori di Chagall, nelle poesie di Bialik, nei racconti di Agnon. E abbiamo chiuso leggendo alcune pagine dedicate a Gerusalemme, che è, in pratica, sinonimo di sionismo, il centro, il principio e la fine di tutto: la città che, come ammonisce il Salmo, è proibito dimenticare; quella a cui, secondo il Midràash, il Signore avrebbe destinato i nove decimi di bellezza, i nove decimi di sapienza e i nove decimi di dolore dell’intero universo; “l’Atlantide sprofondata nel mare”, la Venezia di Dio di Yehuda Amichai. E non è parso un caso, pur non essendo stata una scelta premeditata, che, di queste pagine, le ultime righe abbiano evocato delle lacrime: quelle che – in Una storia di amore e di tenebra – la manina del piccolo Amos Oz “vede”, per la prima e unica volta in vita sua, al buio, sul volto del padre, steso accanto a lui sul letto della loro casa di Gerusalemme, alla fine dell’incredibile notte del 29 novembre 1947, quando il mondo, con qualche millennio – e Dio sa quanti milioni di morti – di ritardo, sentenziò, magnanimo, che, sì, va bene, uno staterello ebraico, piccolo piccolo, forse, perché no, avrebbe anche potuto nascere. O quelle di Vaduccia, la nonna de L’amante A.B. Yehoshua, che si risveglia dal coma soltanto in forza del potere miracoloso di quella parola magica, le cui sillabe racchiudono, da sempre, un arcano segreto: “Quel posto con muro e torri, con vicoli, quel posto con deserto vicino, con subito il deserto, come si chiama? Non Usalemme – Rusalemme. Ma prima c’era qualcosa: Drusalemme, Trusalemme, Brusalemme, Grusalemme. Ah, ah, ah, Grusalemme. Grusalemme, Grusalemme, proprio così, ma no, io piango. Un gran dolore. Gerusalemme. Semplice, ecco: Gerusalemme”.
Chi sa se qualcuno degli studenti si è accorto che il vecchio Professore, leggendo, e cercando di non farsi notare, ha sfiorato, per un attimo, con un dito, uno dei suoi occhi. Semplice, ecco: Gerusalemme.
Francesco Lucrezi, storico
(7 giugno 2017)