Conoscere il nemico
C’era una volta una famiglia, una famiglia diversa dalle altre, fatta da tanti bambini di un intero quartiere, dove “abitava l’élite di tutti i campi di sterminio” (Salta, corri, canta!, Giuntina 2012, p. 92), e tutti sono in un nuovo paese, Israele, il “paese di qua. In questo paese vive un popolo estraneo che viene dalla terra di là. I suoi abitanti sono giunti qua contro la loro volontà; uniche loro proprietà: una lingua straniera, strane usanze, ricordi e incubi” (C’era una volta una famiglia, Giuntina 2009, p. 7).
Un paese in cui i sopravvissuti, nonostante gli incubi ed i ricordi e gli incubi inframezzati ai ricordi, non raccontano: “Si lasciò cadere sulla panchina dove eravamo sedute e raccontò tutta emozionata che sua madre le aveva rivelato che esisteva al mondo un luogo chiamato ‘Shoah’, dove avevano vissuto sei milioni di ebrei, e i tedeschi li avevano portati via con la forza, li avevano fatti spogliare, li avevano rasati, e poi li avevano mandati in un posto chiamato crematorio dove li avevano bruciati, e tutti gli ebrei erano saliti dai camini su un cielo, e non hanno una tomba. Sei milioni e nemmeno una tomba, sottolineò. La rivelazione mi folgorò. Per la prima volta qualcuno mi aveva parlato della Shoah” (Salta.., pp. 36-7).
In questo paese nessuno ha una famiglia normale, come prova a spiegare una delle bambine di allora, Lizzie Doron, ad un conoscente palestinese con cui sta tentando faticosamente di instaurare un dialogo oltre la diffidenza reciproca: “Chi abitava con te quando eri piccola?, ha chiesto Nadim. Mia madre. E tuo padre? No. Tuo fratello? No. Tua sorella? No. Tuo nonno? No. Tua nonna? No. Tuo zio? No. Tua zia? No. Qualche altro parente? No. Non gli è venuto in mente nessun altro da aggiungere alla lista. E allora chi c’era qui? Una mamma e una figlia ho risposto. Questa dunque è la Shoah? Ho annuito in silenzio” (Cinecittà, Giuntina 2017, p. 90).
Lizzie invidia per anni l’amichetta Chayale che ha ben due padri quando lei non ne ha neppure uno, e solo da adulta apprenderà dell’infelicità dell’amica, la quale si sentiva invece colpevole della stramba famiglia che aveva, con una madre sopravvissuta credendo di aver perso nella Shoah marito e figlioletto, risposata al gemello del marito e di nuovo madre di Chayale, fino a quando il primo marito in realtà sopravvissuto arriva in Israele per trovarvi la moglie risposata e con una bambina…Un giorno sì e un giorno no, l’uomo tenterà il suicidio, ed intanto i genitori di Chayale conducono un’esistenza infelice, incassando “con dignità e silenzio tutti i pettegolezzi della signora Koslovski, le sopracciglia alzate della signora Zilberman, di Ita, di Fayghe e di tutte le altre anime pure” (Salta…, p. 149).
Perché, come ricorda “Helena Come-una-pecora-al-macello” (Perché non sei venuta prima della guerra, Giuntina 2008, p. 82), la quale è invece una delle poche a non esprimere giudizi sugli altri per cercare invece di tacere, ascoltare, aiutare, “Se la vita fosse davvero questo affarone imperdibile, non la riceveremmo gratis” (Salta…, p. 163).
Da brava bambina di seconda generazione – quella che la psicanalista Dina Wardi ha definito “candele della memoria” per la responsabilità di proteggere genitori fragili, i quali riversano sui figli la sofferenza della sopravvivenza e la speranza che i bambini, con la loro stessa vita, siano testimoni per sorelle, fratelli, genitori e figli assassinati – Lizzie ha una madre, Helena appunto, la quale, perorando la causa di una donna ritenuta pazza che desidera testimoniare al processo Eichmann, denuncia il paradosso della sopravvivenza: “la testimonianza di coloro che sono rimasti sani è da ritenersi non valida, poiché a quanto pare hanno passato una Shoah leggera. Sarale, vostro onore, al banco dei testimoni non deve dire neanche una parola. Basterà farla stare lì in piedi perché tutto il mondo veda che shoah Eichmann le ha provocato nell’anima” (Perché non sei venuta…, p. 45).
Helena è apparentemente forte, aiuta il ‘primo’ padre di Chayale a non morire un giorno sì ed uno no, crede e non crede in D-o tant’è vero che accende le candele dello Shabbat “senza dire la benedizione e senza pregare”, perché “il nostro D-o se n’è andato ed è scomparso dal mondo” (C’era una volta…, p. 10), e suo modo lo interroga: “E ogni anno, al momento di cantare Uno è il nostro D-o, Helena sospirava e in una sorta di controcanto chiedeva: Perché non due? Perché non due? E poi spiegava il significato di quella domanda: Perché quello che abbiamo ha sbagliato, e non c’era un altro D-o che correggesse lo sbaglio. E in una tremenda afflizione aggiungeva: Peccato, peccato che ce n’è uno solo e non di più” (Perché non sei venuta…, p. 52); ad una ragazza credente che ripete spesso “Che il Signore sia benedetto o Benedetto il Signore, Helena subito ribatteva: Certo, certo, sei milioni” (Perché non sei venuta…, p. 120).
Helena dà risposte spiazzato, e per Lizzie imbarazzanti, come all’impiegato di banca il quale le chiede il suo indirizzo e lei risponde “Auschwitz, baracca numero due davanti ai forni. […] Certe volte sto a Cracovia, altre a Plaszow, oppure a Buchenwald, ma alla fine, signor impiegato, sono sempre ad Auschwitz” (C’era una volta…, p. 23).
Helena cresce da sola una figlia – anch’ella dopo aver perso, scopriremo leggendo, un marito ed un figlio nella Shoah, e di nuovo il secondo marito, padre di Lizzie, il quale per anni essendo tubercolotico viene allontanato da casa, come se fosse già morto, per non contagiare la bambina – facendole tingere sempre i capelli di biondo perché solo le bionde sopravvivono, e alla bambina che guarda le donne per strada (“Me le ricordo tutte solo con i numeri. I nomi, che D-o ci aiuti, erano dei veri scioglilingua e i numeri che avevano sul braccio erano per me molto più facili da ricordare e da pronunciare. Arriva 546772! oppure 94826 è per strada! (Perché non sei venuta…, p. 27)” Helena prova ad insegnare che la vita è complessa, “Nel mondo ci sono persone buone, persone cattive e persone che sono state ad Auschwitz” (C’era una volta…, p. 57).
E mi piace pensare che a dialogare con il palestinese Nadim, con tutte le difficoltà che questo comporta, la diffidenza reciproca, l’ostilità dei mondi di provenienza (chi non ha un parente assassinato nella guerra dei Sei giorni o del Kippur, un fratello morto in Libano, un’amica saltata in aria per la bomba di un terrorista kamikaze? Per non parlare degli haredim che l’aggrediscono, e Lizzie vive comunque in una società democratica, mentre Nadim per il solo fatto di parlare con una donna ebrea israeliana rischia di essere ucciso), abbia contribuito anche l’insegnamento materno, e che forse ora Lizzie non si vergogni più della madre che aveva scritto al preside della sua scuola per spiegare per quali ragioni non l’avrebbe fatta partecipare alla gita sulla tomba dell’eroe di guerra sionista Iosif Trumpeldor: “dalla mia esperienza so che le persone che pensano che è bene morire generalmente sono malate. […] Alla mia bambina, che è venuta al mondo dopo una guerra tremenda, devo insegnare ad amare la vita. Deve sapere che nel caso in cui, non sia mai, dovesse combattere, dovrà combattere per vivere e non perché è bene morire, come Lei e Trumpeldor pensate” (C’era una volta…, p. 63).
Chissà, forse Lizzie ha iniziato a voler parlare con Nadim perché sa che tutti stanno perdendo, come le ha detto ancora una volta Helena in occasione della guerra del Kippur: “I tedeschi li abbiamo sconfitti qua, senza cannoni, senza carri armati e senza aerei. Li abbiamo sconfitti quando abbiamo costruito famiglie e partorito bambini, E ora, ora che i figli ci muoiono, stiamo perdendo anche quella guerra là” (C’era una volta…, p. 130). Per questo, ci dice Lizzie Doron nel suo ultimo libro, Cinecittà, quando è capitato di conoscere ‘il nemico’ e di entrare in contatto per la prima volta con l’altro, ha iniziato a chiedersi come porre fine alla guerra di oggi.
Pubblicato per Giuntina come traduzione italiana di Who the fuck is Kafka (ma nel paese che convive con il Vaticano una parola volgare nel titolo non poteva stare), edito per la prima volta in Germania in tedesco da Deutscher Taschenbuch Verlag, il racconto autobiografico è stato rifiutato più volte in Israele da diverse case editrici, nel timore che un’icona della Shoah come lei avrebbe incassato un insuccesso con un testo dal tema irrilevante quale il rapporto con i Palestinesi, suggerendole piuttosto di continuare ad occuparsi di Shoah.
La storia della pubblicazione del libro, ho appreso intervistandola presso il Museo Marino Marini di Pistoia il 12 giugno in un incontro organizzato in collaborazione con la Comunità ebraica di Firenze e Coopculture, meriterebbe di scrivere un nuovo testo: la frase del titolo originale, pronunciata da Nadim a Lizzie dopo un’intervista con una rappresentante dell’UE, la quale mostra empatia solo per il palestinese e cita più volte Kafka per riferirsi ad un mondo dominato da una burocrazia cieca ed assurda, rimanda a diversi portatori di pregiudizi nei confronti dell’altro, alla mancanza di un linguaggio ed un retaggio culturale comune di riferimento (dal momento che Nadim ignora chi possa essere questo Kafka), alla necessità di soppesare le parole perché dietro ognuna di esse si cela un’ideologia (Guerra dei Sei giorni versus guerra del 1967; terrorista versus shahid ovvero testimone, e potremmo aggiungere Guerra di Indipendenza versus naqba, catastrofe, che “non esiste nel mio calendario”, dice Lizzie a p. 124). E forse, infine, all’importanza di costruire un lessico ed un vocabolario comune per iniziare a parlarsi invece di accusarsi a vicenda.
Perché la pace è difficile eppure bisogno, urgenza, unica possibilità di sopravvivenza.
Sara Valentina Di Palma
(15 giugno 2017)