CULTURA La riforma a metà che frena i nostri musei

Il Tar del Lazio ha accolto i ricorsi contro la nomina di cinque dei venti direttori di musei nominati dal ministro Franceschini e la maggioranza degli italiani ha capito che il problema erano i direttori stranieri. Ma che dire delle bocciature delle nomine di direttori italiani? La risposta si ottiene leggendo le chilometriche e incomprensibili sentenze del Tar del Lazio con l’aiuto di pazienti ed esperti giuristi. Come nella maggioranza dei ricorsi ai Tar, le sentenze evidenziano il mancato rispetto delle procedure, troppa arbitrarietà e poca trasparenza nelle selezioni (colloqui via skype e non audizioni pubbliche, punteggi per le classifiche ritenuti non idonei e selezione tra i tre finalisti da parte del ministro considerata non oggettiva). La non italianità dei candidati contava poco ma, dato che era la cosa più chiara nella lettura delle sentenze, è diventata il principale oggetto del dibattito. Non sappiamo cosa deciderà il Consiglio di Stato ma, se anche il governo riuscirà a togliere il vincolo antistranieri, il problema non sarà risolto e i ricorsi al Tar continueranno a fioccare, in particolare quando bisognerà sostituire un direttore o rinnovarlo alla scadenza del contratto.
Il problema ha radici profonde. Quando si seleziona un candidato di responsabilità non è facile stabilire punteggi oggettivi che valutino l’esperienza e bisogna garantire la privacy di una persona che non ha nessuna voglia di fare sapere al pubblico che sta valutando una posizione prima di essere accettata. La selezione è per definizione arbitraria e poco compatibile con i concorsi pubblici i cui criteri di definizione del merito prevedono una valutazione il più oggettiva e trasparente delle competenze tecniche di un candidato — la conoscenza della legge per un magistrato, del fisco per un dirigente della agenzia delle entrate e della storia dell’arte/architettura /archeologia per un sovrintendente del ministero della cultura. Ma come valutare con punteggi la capacità di leadership e lo spirito imprenditoriale? Peraltro, anche nelle aziende private le scelta di un nuovo amministratore delegato proveniente dall’interno è sempre più facile di quella di uno che viene dall’esterno e sono necessari i «cacciatori di teste» non solo per trovarli, ma anche per valutarli. Non per nulla le «nomine» degli ad delle aziende pubbliche sono sempre oggetto di grandi polemiche ed era quindi prevedibile che anche nel caso delle nomine dei direttori di museo sorgessero delle contestazioni.
Nella Pubblica amministrazione italiana (Pa) si fa carriera dall’interno, secondo norme, procedure burocratiche e punteggi tipici dei concorsi pubblici che da anni sono una risposta al cancro delle raccomandazioni. All’estero, invece, le nomine dei vertici della Pa possono avvenire dall’esterno e così avviene anche per molti musei pubblici. In Francia, il direttore del Louvre è nominato dal Presidente della Repubblica, mentre quello del museo Pompidou è scelto da una fondazione, come avviene in Inghilterra per il direttore del British Museum.
Il ministro Franceschini ha deciso che anche da noi i direttori dovevano essere selezionati all’esterno (e anche all’estero). Lo ha fatto perché inizia ad essere chiaro che il direttore di un museo non deve solo tutelare il patrimonio artistico affidatogli, ma anche valorizzarlo. Deve quindi conoscere il marketing dei beni culturali (per esempio segmentando i visitatori — single appassionati, famiglie senza figli, famiglie con bambini — e adattando la offerta culturale), essere capace di cercare fondi privati, gestire un budget e le persone, organizzare un bookshop e un locale di ristoro. Non basta uno storico dell’arte, ci vuole uno storico dell’arte che capisca di management. E il management scarseggia tra le competenze dei sovrintendenti del Ministero che per 50 anni hanno guidato i musei italiani.
Ma il ministro non ha voluto o potuto spingersi fino in fondo, riformando in modo radicale il processo di selezione, svincolandolo dalle procedure dei concorsi della Pa. Non solo. La riforma non era completa anche perché i direttori di museo selezionati non hanno abbastanza potere: le risorse umane e finanziarie e i servizi museali sono ancora centralizzati al Ministero. I direttori non possono essere quindi ritenuti responsabili dei risultati in termini di visitatori, iscritti e donazioni private, come avviene nei principali musei pubblici e privati del mondo. Una selezione dall’esterno dei vertici dei musei pubblici è possibile anche in Italia e lo dimostra il museo egizio di Torino che è guidato da una fondazione che sembra funzionare benissimo.
È però necessaria una seconda fase della riforma che formalizzi che le nomine esulano dai concorsi per carriere dall’interno, magari trasformando i grandi musei italiani in fondazioni e ripensandone la governance. Non basta, bisogna anche dare ai loro direttori i poteri che oggi non hanno, ridimensionando drasticamente quelli del Ministero dei beni culturali. Nascerà così una vera meritocrazia anche nella gestione del patrimonio artistico italiano e si eviterà che, anche nella cultura come nella economia, chi guida il Paese è la magistratura.
Il coraggioso ministro della cultura che avvierà questa riforma si troverà contro dei nemici facilmente prevedibili: tutti coloro che oggi gravitano nel mondo dell’arte e che ritengono che essa sia prerogativa solo delle élite (la loro) e non di tutti i cittadini e che urleranno contro la «privatizzazione del patrimonio artistico italiano».

Roger Abravanel, Corriere della Sera, 12 giugno 2017