Cultura – Restituite l’arte rubata

L’idea originaria dei curatori di “documenta 14” — l’edizione 2017 della grande esposizione d’arte contemporanea che si svolge a Kassel, in Germania — era quella di riflettere sull’arte confiscata dai nazisti esponendo le opere ritrovate nelle case di Cornelius Gurlitt. La storia è nota: su un treno per Monaco, sei anni fa, la polizia perquisisce un anziano nullatenente e gli trova 9.000 euro cuciti nella giacca. Qualche tempo dopo, insospettiti da quello strano caso, gli agenti fanno irruzione nel suo appartamento di Monaco e trovano, in mezzo a tonnellate di immondizia, il più grande tesoro d’arte del secolo. Mille e cinquecento capolavori che spaziano da Picasso a Klee, da Matisse a Rodin, confiscati durante il regime nazista agli ebrei. Oppure, in quanto “arte degenerata”, ai legittimi proprietari. Quelle miriadi di opere dal valore inestimabile sono finite, negli anni delle persecuzioni naziste, al padre di Cornelius, il “mercante di Hitler” Hildegard Gurlitt. Dopo la guerra l’amico intimo di Hermann Goering le dichiara disperse nel celebre incendio di Dresda. II figlio Cornelius, dopo la morte del padre avvenuta nel 1956, mantiene il silenzio più totale su quel tesoro e ne vende di tanto in tanto un pezzo per mangiare o curarsi, insomma per sopravvivere. Fino all’incredibile scoperta del 2011. La storia di quei quadri, per certi versi, è appena cominciata. L’impresa di rintracciarne i legittimi proprietari è titanica. E l’idea dei curatori di “documenta 14”, vista l’impossibilità di esporre direttamente gli scippi di Gurlitt, è stata quella di mettere in evidenza l’immenso dramma della restituzione. Un tema in parte delegato all’artista tedesca Maria Eichhorn, che ha lanciato il progetto “Rose-Valland-Institut”. Lo scopo dichiarato è quello di indagare «sulle confische ai danni della popolazione ebraica e sulle conseguenze fino ai giorni nostri» di qualsiasi oggetto strappato di mano ai legittimi proprietari durante la dittatura di Hitler. L’appello provocatorio è dunque quello di fornire informazioni su oggetti ma anche su beni confiscati o proprietà sequestrate dai seguaci di Hitler a un apposito istituto” che Eichhorn ha istituito fino al 17 settembre, cioè fino all’ultimo giorno di documenta 14′, alla Neue Galerie di Kassel. Proprio il caso Gurlitt dimostra quanto sia disperante l’impresa di risalire alle famiglie espropriate. La commissione creata ad hoc con diciassette membri e trenta esperti esterni, dopo due anni di ricerche su 499 opere in odore di confisca, ha presentato un bilancio magrissimo, all’inizio del 2016. Sono appena undici le provenienze dei quadri in mano a Gurlitt chiarite con certezza AI di là di alcuni casi clamorosi che hanno riempitole prime pagine dei giornali come la restituzione del Ritratto di signora di Henri Matisse ad Anne Sinclair, ex moglie di Dominique Strauss-Kahn, o La Seine, vue du Pont-Neuf au fond le Louvre di Camille Pissarro che è stato riconsegnato ai discendenti di Max Heilbronn, un uomo d’affari parigino a cui il quadro fu sottratto nel 1942, il lavoro da fare per rintracciare le origini di quelle opere dal valore incommensurabile sembra ancora lunga. Il prossimo inverno, intanto, Bonn dovrebbe esporre la prima mostra del lascito Gurlitt. Nel frattempo, sul caso si è innescata una polemica più ampia. Non è un caso, argomentava ieri la storica dell’Est Europa Corinna Kuhr-Korolev dalle colonne della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che i beni sottratti nei Paesi occupati dai nazisti a Est occupino un ruolo marginale nel progetto di Maria Eichhorn. «È tipico — polemizza — di un certo modo di intendere i furti d’arte perpetrati dai nazisti che viene portato avanti dagli anni Novanta». Quella delle opere rubate dai tedeschi nell’Est e, viceversa, dai soldati sovietici nella Germania liberata è una storia a sé, poco indagata. Dal punto di vista terminologico si è adottata una distinzione tra «arte confiscata dai nazisti» e «arte saccheggiata», sostiene. Il primo termine riguarda anche, nello specifico, i beni sottratti «illegittimamente a proprietari ebrei». L’«arte saccheggiata», invece, descrive i trofei che i soldati sovietici portarono nell’Urss dopo la fine della guerra. Negli anni Novanta è cominciata una trattativa per trovare un accordo su quei furti di guerra, ma nel 1997 il negoziato si è insabbiato. Da parte russa ci si è irrigiditi su un punto di vista storico e si considerano i trofei saccheggiati dai sovietici in Germania come una sorta di compensazione per l’arte rubata dai soldati nazisti nei territori occupati al di là dell’Oder. In Germania si continua invece a considerare la questione dal punto di vista giuridico. Un saccheggio, quello a Est, che non riguardò solo i tesori dell’arte. Come dimostrano alcune testimonianze d’epoca come il Diario di una collaborazionista di Lidia Ossipowa, in cui vengono descritti gli scambi osceni proposti dai soldati tedeschi alle popolazioni dell’Est Europa ridotte alla fame più nera. A Puskin, dove Ossipowa raccoglieva le sue impressioni, mille persone morirono di fame soltanto nell’inverno tra il 1941 e ’42. Le camicie brune, è scritto nel diario, «comprano soprattutto oro e pellicce in cambio di tabacco e pane. Una pelliccia vale due forme di pane e un pacchetto di sigarette… Eccola, la tua ricca Europa. Da non crederci».

Tonia Mastrobuoni, La Repubblica, 29 giugno 2017