Periscopio – Sicurezza
I recenti, drammatici fatti di sangue di Gerusalemme ripropongono, ancora una volta, amare considerazioni, che già tante volte siamo stati costretti a ripetere. La feroce spietatezza degli assassini, per i quali la sacralità del luogo prescelto per dare la morte rappresenta, anziché un freno morale, un evidente potenziatore dell’effetto mediatico e propagandistico dei crimini perpetrati. La tetra, lugubre, disperante monotonia dei loro sponsor, che non vedono l’ora di inneggiare, con parole sempre uguali, ai nuovi “eroi”, che vanno ad infoltire il già affollatissimo album di figurine dei campioni di casa; la sfacciata ipocrisia di chi finge di condannare il gesto, già preparando i soldi delle laute pensioni da elargire ai familiari degli assassini, in impaziente attesa; lo squallido cinismo di chi reclama a viva voce la tutela dei luoghi santi, attribuendo la responsabilità della loro temporanea chiusura non già ai seminatori di morte, ma alle autorità preposte alla pubblica sicurezza, che hanno il dovere (strano?) di vigilare sull’incolumità di tutti, e di prevenire ulteriori accoltellamenti e omicidi.
Sono cose già dette e stradette, che non varrebbe neanche la pena ripetere. Quella che intendevo fare, in quest’occasione, era invece un’altra, piccola considerazione. Anche se, purtroppo, la minaccia terroristica incombe, al giorno d’oggi, su quasi tutti i Paesi del mondo (compresa l’Italia, anche se pare, fino ad oggi – incrociamo le dita – essere stata risparmiata), in nessun altro posto, al pari di Israele, vige uno stato di allerta così costante, quotidiano, capillare, che impone non soltanto alle forze dell’ordine, ma ogni singolo cittadino una condizione di vigilanza continua e incessante, che non ammette alcuna deroga o flessione. Ci sono regole di comportamento quotidiane che gli israeliani imparano fin da bambini, e che tutti, di qualsiasi orientamento politico o religioso, sono costretti a osservare giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Anche gli arabi, naturalmente, quando circolano per le zone a maggioranza ebraica, stanno attenti, e gli stessi terroristi, anche quando vanno a fare gli attentati, usano cautela, per evitare di finire per sbaglio colpiti da qualche loro collega. Senza questa educazione collettiva alla sicurezza, il prezzo pagato dalla cittadinanza al terrore sarebbe, evidentemente, molto più alto. Eppure, come ben sa chi sia andato in Israele, anche una sola volta, questo costante stato di emergenza viene gestito con straordinario autocontrollo: la gente lavora, esce, si diverte, si incontra, va al ristorante, al cinema e a teatro, vive la quotidianità con un diffuso sentimento di normalità, di tranquillità. E com’è noto, il Paese stupisce il mondo con i risultati di eccellenza raggiunti nei campi più disparati: le Università israeliane sono tra le migliori del mondo, gli ospedali pure, gli studi di diritto, storiografia, economia, scienze sono all’avanguardia, i progressi tecnologici recano benefici a tutti i continenti, e rendono la piccola nazione, percentualmente, la punta di diamante dell’hi-tech mondiale, l’agricoltura è in costante avanscoperta, i romanzieri sono tradotti in tutte le lingue, e commuovono i lettori di tutto il pianeta. E tutto questo nonostante l’intero sistema-Paese debba investire una parte enorme delle proprie risorse umane e finanziarie nella sicurezza. Nonostante Israele sia costretto a mantenere un esercito e una polizia in stato di costante e assoluta efficienza, nonostante tutti i ragazzi, appena finito il liceo, debbano sostenere due o tre anni di leva obbligatoria, e quasi tutti gli adulti debbano tornare a servire Tsahal, come riservisti, fino a età non più verdi. Qualcuno si è mai chiesto cosa riuscirebbe a fare Israele, senza dovere impiegare tanta parte del tempo, delle energie e delle risorse nella sola sicurezza? Senza dovere sempre organizzare e gestire controlli, check point, metal detector – sforzandosi di ridurre al minimo i disagi per la popolazione -, senza quotidiani addestramenti militari, senza dovere costantemente guardarsi intorno e alle spalle?
Quanti altri libri e poesie potrebbero essere scritti, quanti quadri potrebbero essere dipinti, quante scoperte potrebbero essere fatte, quanta musica potrebbe essere composta e ascoltata, quante opere teatrali recitate? E quanto beneficio trarrebbe, tutto il mondo, da tutto ciò?
Nessuno lo saprà mai. Sappiamo solo che, ogni giorno, vengono buttati a mare interi forzieri ripieni di monete d’oro, nell’indifferenza – se non nel compiacimento – di tutti.
Francesco Lucrezi, storico
(19 luglio 2017)