L’angoscia e il suo nome

torino vercelliSeguo il dibattito – decoroso, ossia privo di gratuite invettive – da una bacheca di un’amica, sulla scorta di una sua comunicazione, nella quale dava corpo ai crescenti timori verso la crescita dell’intolleranza e, con essa, delle pulsioni antisemitiche. Da manifestazioni occasionali, nel loro ripetersi e sommarsi, rinforzandosi quindi vicendevolmente, l’autrice ne ricava un senso di crescente oppressione, anche per se stessa. Soprattutto per il suo futuro. Più che la comunicazione, da me condivisa in toto nel merito come nel metodo, l’interesse – però – mi è stato sollecitato dalle risposte al post. Tutte connotate da un senso di rispettosa partecipazione. Ma dalle quali, senza indulgere in alcun giudizio e cercando invece di cogliere il filo logico delle altrui argomentazioni, mi è parso di cogliere, in più di un caso, il persistere di una serie di “equivoci” di fondo. Il primo di essi è l’incapacità di pensare ai razzismi, ed in particolare all’antisemitismo, come ad un instrumentum regni di cui la politica, ma più spesso la società civile (la “gente”) in rapporto alla politica medesima, fanno ricorso nei momenti in cui devono dare risposta a problemi sistemici (crisi economiche, trasformazione nella propria interna costituzione materiale, crisi delle vecchie classi sociali e quant’altro) esulando dal rinviare alle prassi ordinarie. Il problema del generarsi di una condizione di permanente “emergenza”, dove gli individui sono sottoposti ad una serie di tensioni sistematiche, senza sollievo o temperamento possibile, è purtroppo un eccellente incubatore di risposte pregiudiziose. Non infrequentemente, nella discussione sul web e nei social network, l’unico riferimento all’agire e alle identità politiche è, in questo caso, ricondotto invece alla bislacca discussione su quanto siano più “antisemiti” la destra (quale?) o la sinistra (quale?). Bislacca almeno in queste circostanze. Come se così facendo si potesse affrontare, di fatto esorcizzandolo, il problema in sé. In questo continua rincorsa a vuoto, vedo una specie di ripetersi di un regolamento di conti tra fronti contrapposti che, in questi ultimi trent’anni, hanno trascinato il tema dell’antisemitismo dentro l’agone delle opposte identità. In assenza, tra gli uni e gli altri, di elementi alternativi al mero ”uso politico” dell’accusa contro l’avversario. Oggi, infatti, l’essere qualificati come “antisemiti” è ancora una condanna. Proprio per questo, trattandosi di una sorta di totem/tabù (che nel momento in cui genera divieto solletica anche la sua infrazione), poco o nulla vieta di pensare che, prima o poi, poste le condizioni “oggettive”, cioè le circostanze a favore, ci sia chi procederà, con calcolata iconoclastia, a gettare l’interdizione nella polvere, nel tripudio di una parte degli astanti. Non sarà più – allora – la questione di alcune formazioni del radicalismo politico ma, piuttosto, della falsa “liberazione” che una collettività riterrà di potersi auto-assegnare. La quadratura del cerchio avverrà con il ricorso ad una parola chiave, “sionista”, che sta dando spessore ad un vecchio/nuovo immaginario antisemitico. Per parte mia ne sono certo. Prescindendo dalle oggettività e dalle peculiarità del contesto storico in cui quel termine si è generato. Il secondo equivoco è quello “culturale”. Lo risolverei in tale modo: “il pregiudizio lo si combatte con la conoscenza”. Ma il pregiudizio, soprattutto quando si traduce in politiche pubbliche, è a modo suo una forma di “conoscenza”, ancorché corrotta. Una conoscenza che acquieta, ossia che dà, a coloro che l’assumono non in quanto amaro calice bensì come un dolce nettare, l’idea – non importa se illusoria: non c’è nulla di più pervicace e persistente delle mitografie razziste – di avere trovato una ragione alle proprie tribolazioni. Così come il richiamo, a tratti quasi ossessivo, alla presunta residualità del pregiudizio (un divario di cognizione da colmare, in buona sostanza), non ne coglie in alcun modo la sua capacità di metamorfosi e adattamento alle condizioni date. Altrimenti non saremmo qui a parlarne. Il paradosso delle “vie culturali”, una miscela di pedagogismo e intenzionalismo morale, è allora quello dell’eterogenesi dei risultati, che rischiano di risultare capovolti rispetto alle legittime premesse di principio. Ad esempio, in più occasioni può rivelarsi un falso ideologico il convincimento che per combattere l’antisemitismo si debba sempre raccontare la “storia degli ebrei”. Ciò per molteplici ragioni, a partire dal fatto che l’antisemitismo non è l’ignoranza del mondo ebraico ma la sua visione secondo stereotipi e archetipi a prova di verifica. Essendo essi stessi – questione che ritorna, a ben vedere – una “ragione altra”. Per capire l’antisemitismo bisogna studiarne l’interna costituzione, la sua apparente razionalità, non rifarsi agli “ebrei”. Che ne sono i primi, ma non unici, destinatari. Così come considerazioni similari andrebbero fatte sul ricorso, sempre più spesso inflattivo se non a volte ai limiti dell’incautela, poiché privo di spessore critico e informato a crescenti ritualismi, dei discorsi legati al “Giorno della memoria”. Dove, peraltro, non raramente si rafforza il cliché lacrimoso dell’ebraismo come soggetto storico che esiste solo in quanto composto da individui perseguitati. Quand’essi cessano di essere tali, perdono lo stato di eccezionalità, e quindi di protezione rafforzata, che gli andrebbe altrimenti riconosciuto. Anche questo è un passaggio pieno di equivoci. Qualcosa del tipo: “ci piacete come vittime”, poiché il cuore buono e solerte si identifica per definizione nella condizione delle “vittime”. Così non va. Perché la sostanza quotidiana di una politica democratica non è l’accoglienza del “fratello sfortunato”, o giù di lì, bensì la continua ricerca di punti di mediazione e di integrazione tra storie e identità distinte ma non per questo necessariamente confliggenti. Altrimenti si ripete l’equivoco che è alla base stessa del pregiudizio, per cui esisterebbe una scala gerarchica tra integrati e non, o tra integrati e “disintegrabili”, alla quale il buon cuore sa di certo come dare risposta. Il pregiudizio è tale che sia di segno negativo (l’odio viscerale, capace di sorreggersi da sée che rivendica esclusione) o positivo (una certa idea di amore come disposizione d’animo di chi ama, che va quindi accettata incondizionatamente da chi ne è fatto destinatario), richiamando sempre sentimenti e risentimenti irragionevoli, insindacabili ma comunque razionali, ossia tra di loro dotati di una intrinseca coerenza, che danno sostanza ad atteggiamenti pubblici basati sulla revocabilità di una concessione e non sulla tangibilità dei diritti. Non di meno, se nessuno gradisce trovarsi concretamente nella condizione di “vittima”, ben sapendo quanto nei fatti sia scomoda tale condizione, tuttavia c’è che ambisce, sul piano simbolico, ai benefici che possono derivare dal definirsi dinanzi agli altri in quanto “vittima di qualcosa o qualcuno”, traendone il diritto ad un qualche risarcimento, fosse anche solo di ordine morale o ideale. Segnatamente, sia il “nuovo” antisemitismo che non pochi aspetti dei molti simbolismi legati al conflitto israelo-palestinese, giocano su un obiettivo: contrapporsi al “vittimismo ebraico”, capovolgendo le parti. Lo si fa dicendo che gli ebrei utilizzano come perenne strumento di ricatto un’identità e dei codici culturali basati sul farsi identificare come “eterni perseguitati”. In questa opera di disvelamento (anzi, di “rivelazione”, come si presenta sempre il razzismo) il meccanismo è duplice: si mette ai margini del consesso umano l’”ebreo” e poi lo si accusa di essersi disegnato un profilo vittimistico. Non è una prerogativa dell’antisemitismo, essendo semmai un dispositivo che opera in molti processi di razzizzazione. Ma nell’antisemitismo trova la sua forma compiuta, per così dire. Quanto meno, quella più e meglio collaudata. Il terzo passaggio, forse quello più autentico dal punto di vista di umano, è il ripetuto richiamo al “vi difenderemo noi!”. Si tratta di un’esortazione assicurativa rivolta nei confronti di una minoranza, quasi che nel dire: “noi democratici e antirazzisti siamo determinati nell’aiutarvi a sopravvivere”, si estrinsecasse la radice della collettività dei giusti. È questa una posizione dolcemente ingenua. Perché da un lato considera gli individui non come parte di una società bensì in quanto esponenti di una minoranza tout court, ossia come parte di una piccola specie, a rischio di estinzione. Gli si vuole bene come tali, più che come omologhi. Dall’altro, ritiene che vi sia la capacità, da parte di chi non vuole cedere al canto delle sirene della violenza, che verbale come fisica, di potere fare corpo unico nel “momento del bisogno”. Ci sono molti equivoci dietro questa impostazione delle cose. Tra gli altri: 1. l’incapacità di capire che l’antisemitismo colpisce prima di tutto gli ebrei ma non è un problema dei (soli) ebrei, semmai lacerando le reti delle relazioni sociali e ricostruendole secondo criteri gerarchici basati sul “primato dell’appartenenza razziale” e della politica come “riorganizzazione della collettività sulla scorta di principi razzisti”. Colpire le minoranze serve sempre per riallineare le maggioranze. Per questo le politiche razziste hanno un campo prospettico ampio e una buona capacità di creare seguito nei momenti di trasformazione repentina delle società; 2. l’idea che, all’atto pratico, “sapremo come opporci” in quanto corpo unitario, per l’appunto “antirazzista e democratico”, poiché diversi da coloro che tali non sono. Storicamente, quando un pregiudizio si è fatto elemento di regime (politico), comunque atteggiamento quotidiano di senso comune, ognuno si è adattato come gli è stato possibile. Il regime dei pregiudizi esiste proprio perché disarticola a priori le risposte oppositive, quelle di matrice politica. Casi individuali, anche diffusi, di mancata omologazione non sono mancati. Né mancheranno. Ma costituiscono l’eccezione, non la norma che, semmai, è contrassegnata dallo slittamento verso il fondo dei tanti. Che, a conti fatti, sono quelli che fanno la differenza, fornendo consenso a ciò che, una volta esauritosi, si incaricheranno di condannare come un evento transitorio, comunque non di loro pertinenza né, tanto meno, responsabilità. Si tratta di un groviglio di questioni alle quali, evidentemente, non si può pensare di dare risposta in un solo modo. L’unica cosa che varrebbe la pena di chiedere, a fronte della inutilità degli atteggiamenti apocalittici – che paralizzano ogni tentativo di risposta -, è la necessità di superare il bisogno di vedere gli eventi sociali con le lenti della semplificazione ingenua. Per il momento, molto da aggiungere non c’è, se non la consapevolezza che un lungo ciclo, iniziato con la fine della catastrofica guerra del 1939-1945, si è oramai concluso. Per questo ci si accorge, quanto mano da parte di certuni, di essere in mare aperto, senza un orizzonte chiaro.

Claudio Vercelli

(23 luglio 2017)