Periscopio – L’amico di Keith

lucreziSono sempre stato, fin da adolescente, un grande ammiratore dei Rolling Stones, la cui straordinaria musica ha fatto, in buona misura, da colonna sonora della mia vita. È perciò con notevole interesse che ho letto l’autobiografia del grande Keith Richards – dal secco titolo “Life” -, eccelso chitarrista e compositore, alla cui incrollabile energia si deve, soprattutto, l’incredibile durata della band, sulla scena ormai da più di mezzo secolo. Un libro che – al di là del racconto dei tanti eccessi vissuti (droga, prigione, sesso sregolato, violenza…), – permette di conoscere aspetti inediti dei retroscena della creatività della musica rock, e del peculiare scambio di energia tra i trascinanti artisti e le turbolente masse giovanili. Pur non dimostrando per l’ebraismo un particolare interesse – a differenza, per esempio, dei suoi grandi colleghi Bob Dylan e Lehonard Cohen -, Richards ricorda comunque con orgoglio le sue origini ebraiche, ma ciò per cui intendo ringraziare, in questa nota, il musicista, è il toccante ritratto umano offertoci di una figura particolare che è stata a lungo accanto a lui, condividendone le sfrenatezze, anzi, sollecitando fortemente le tendenze autodistruttive di Richards, e spingendolo con forza dentro il tunnel della droga, che sembrava avere risucchiato entrambi in modo irreversibile. Mi riferisco a Freddie Sessler, per anni amico del cuore del chitarrista (nonostante la forte contrarietà di quasi tutti gli uomini dell’entourage degli Stones, che cercavano di porre la rockstar al riparo da una frequentazione giudicata [e con buone ragioni] deleteria). “Quel tizio è un male per Keith”, dicevano tutti. “Dicevano che era maleducato, offensivo, volgare: certo che lo era”, scrive Richards, “ma Freddie è stato una delle persone più degne che io abbia conosciuto”. Sessler portava ogni sera le sostanze stupefacenti all’amico, quasi si fosse fatto un punto d’onore di portarlo alla morte. Una morte che, con tutta evidenza, cercava anche lui. Eppure, pur uscito dal tunnel, e finalmente disintossicatosi, Keith ricorda l’amico con parole di grande affetto e nostalgia, rievocando con sgomento il suo terribile passato. Ebreo polacco – anzi, per usare le parole di Richards, “ebreo fino al midollo” – Sessler aveva perso quasi tutta la famiglia nella Shoah: dei cinquantaquattro parenti che aveva in Polonia, erano sopravvissuti solo in tre, tra cui lui e un fratello: morti i genitori e gli altri quattro fratelli, il nonno – in quanto capo della comunità – giustiziato in pubblico, anche sotto i suoi occhi. Freddie riuscì, tra mille fortunose peripezie, a fuggire in Inghilterra, dove continuò una vita che però non poté mai più chiamarsi vita. Era stato certo di essere sul punto di morire a quindici anni, ma non andò così. Ma “io sono comunque morto, anche se sono ancora in vita”, confidò poi a Keith. Che male può mai farmi l’eroina? Tanto, dal mondo dei vivi sono già uscito, per sempre.
Certo, volere morire è una cosa, altra cosa è trascinare nel tuo abisso – come pare avere fatto Sessler – altre persone. Keith potrebbe rimproverare di ciò il suo amico, ma non lo fa. Lo ringrazia di averlo fatto partecipe del suo strazio, dandogli una tragica e disperata lezione di vita. È attraverso Freddie che Richards capisce che il confine tra la vita e la morte può essere molto labile, e che non è affatto detto che la prima cosa sia la migliore. A noi non resta che ringraziare il grande musicista per la sensibilità dimostrata col voler condividere questa storia, oscura e senza speranza, di dolore senza fine.

Francesco Lucrezi, storico

(9 agosto 2017)