…permanenza

Camminando nel Ghetto vecchio a Venezia, facendosi strada fra i molti turisti che in maniera non sempre consapevole lo attraversano, si passa accanto a un bel negozio di arte ebraica sopra il quale campeggia orgoglioso e un po’ demodé un doppio simbolo della tradizione ebraica: una Menorà (candelabro a sette bracci) e un Magèn David (la stella a sei punte). Quando solo pochi decenni fa non si era ancora definitivamente avviata l’epoca della turisticizzazione di massa della città lagunare questo negozio era l’unico segno esteriore visibile dell’identità storica ebraica di una zona che altrimenti si andava confondendo con le altre aree popolari decadenti e malconce di quella che fu la Dominante. Diego Fusetti (per tutti Dino) era il proprietario, rappresentante di una secolare tradizione artigiana e mercantile che per lunghi secoli aveva caratterizzato la presenza ebraica a Venezia. Quando si parla di un confronto/contrasto fra ebrei vivi ed ebrei morti la figura di Dino Fusetti, della sua arte e della sua presenza attiva nella piccola comunità locale, ci appare in tutta la sua semplice grandiosità come un esempio a cui guardare con affetto e ammirazione. Aveva deciso di subentrare alla madre – Leda – che per molti anni aveva presidiato la piccola bottega inventata negli anni ’60 dal marito Marco. Un’attività semplice e ingegnosa (oggi diremmo una start up) che identificava alcuni oggetti della tradizione ebraica (mezuzòth, Shadday, lampade di Hanukkah, scritte di benvenuto) e li riproduceva in forme classiche e originali utilizzando diversi materiali propri dell’artigianato veneziano. Avviando questa attività il vecchio Marco forse non si rendeva conto dell’importanza della sua iniziativa. Per la prima volta da tanti anni, dopo la devastazione della Shoah, in Ghetto si riapriva una bottega ebraica, che si caratterizzava per un doppio sguardo rivolto verso il passato e verso il futuro. Dal passato traeva la caratteristica professionale che aveva conformato la dinamica della presenza ebraica nei ghetti veneziani per secoli. Nei censimenti della fine del Settecento la predominanza di “bottegai” è assoluta, a denotare una funzione sociale consolidata di una popolazione forzatamente urbana. Una caratteristica che con la fine dell’epoca della clausura si era progressivamente affievolita, ma che era ancora rimasta ben presente in alcune realtà italiane fra cui quella di Venezia, dove un ebraismo fieramente e orgogliosamente popolare si può ancora incontrare nella normale vita comunitaria. Il negozio di Dino (e prima di Leda e Marco) faceva quindi transitare questa antica tradizione verso la nuova dimensione contemporanea di una Venezia turistica, che tuttavia non accettava di affidarsi alle riproduzioni cinesi delle maschere caratteristiche di una città teatrale parzialmente inventata. Se turismo doveva essere, era un turismo da educare e istruire. Se si visita il Ghetto, da quel luogo si deve uscire arricchiti di conoscenza, magari portandosi dietro un oggetto di qualità, caratteristico e rappresentativo di un passato che ci fu realmente e che va preservato. Un ponte, quindi, fra passato e futuro, ma non solo. Anche un vero e proprio presidio per il presente di una comunità ebraica viva e oltremodo vivace. Per molti anni (e per molti versi ancora oggi che la moglie e i figli portano coraggiosamente avanti l’attività) la bottega di Dino è stato l’unico luogo del nord Italia nel quale si poteva trovare o ordinare un Talled e dei Tefillin, oggetti necessari per il Bar Mitzwah e per la perpetuazione delle tradizioni rituali. Si andava in Ghetto da Dino Fusetti per il regalo ebraico di pregio in occasione di una nascita o di un matrimonio, ma a lui si rivolgevano anche le comunità alla ricerca di nuovi addobbi di prestigio per il Séfer Torah. Una presenza quindi, un punto di riferimento che non sarebbe stato possibile in un altro luogo e con un’altra persona. Perché Dino, con la sua giovialità e la sua pacatezza, era in fondo profondamente consapevole della grandiosità del suo ruolo. Accoglieva e consigliava, spesso si metteva a disposizione personalmente per agevolare in ogni modo con la sua opera la perpetuazione della tradizione ebraica nelle famiglie che lo contattavano. Per molti, Dino semplicemente “c’era”, era scontato incontrarlo lì in Ghetto, magari provenendo da Israele o da New York. Ora purtroppo Dino non c’è più, anche se rimane la sua importante attività. La sua anima sia avvinta nei legami della vita – così si dice di chi se ne va, nella tradizione ebraica. Una vita, ebraica, che Dino ha contribuito in molti modi a onorare e perpetuare per le generazioni future.

Gadi Luzzatto Voghera, direttore Cdec

(18 agosto 2017)