A Giuseppe

david-meghnagiGuardavo il suo volto pallido e sofferente con la mente rivolta alle conversazioni di due decenni prima, in auto e in treno. In cui spesso dava sfogo al dolore provato quando seppe che il medico ebreo, che gli aveva salvato la vita, aveva dovuto lasciare l’Italia, dove in precedenza aveva trovato rifugio per sfuggire alle persecuzioni naziste. Le “Leggi razziali”, ripeteva spesso, sono state per me un’offesa personale, che mi ha fatto provare vergogna di essere italiano”…. C’eravamo conosciuti pochi giorni dopo lo scoppio della guerra del Yom Kippur. Cinque anni prima, avevo vissuto un mese di angoscia, nel timore di una distruzione violenza dell’intero nucleo familiare e della mia comunità, e ne portavo ancora le ferite nell’anima. Fuggito dalla Libia dopo il pogrom del 1967, il terzo in poco più di due decenni, non avendo ancora i documenti “in regola” (pur essendo cittadino italiano), mi procuravo da vivere con lavori saltuari.
In quei giorni avevo scritto un breve testo, carico di angoscia, in cui invitavo la sinistra italiana a una più seria riflessione… A Giuseppe il testo piacque […] Diventammo amici. Saputo che non potevo essere assunto dall’Università, anche se vincitore di un concorso per assegnista, fece di tutto perché nell’attesa che la mia posizione si risolvesse, potessi prendere servizio. Anche se questo significò comunque per anni una condizione di marginalità e d’impossibilità di progresso nella carriera. “È il mio modo”, mi disse un giorno scherzando, “per saldare il mio debito nei confronti del medico che mi ha salvato la vita”.
Saputo dei miei interessi psicoanalitici, pur essendo la sua formazione e sensibilità letteraria orientata in altro senso, sebbene tenessi i miei corsi all’interno del suo insegnamento, non ostacolò mai la mia attività, stimolandomi a scrivere e pubblicare sull’argomento. Fu per me un’esperienza unica, in cui Giuseppe mi dava il massimo di libertà, partecipando anche lui talvolta alle discussioni con gli studenti . […] Per rendere più tollerabile il dolore, suo e mio, gli proposi di vederci a giorni alterni per intervistarlo. Per raccogliere le sue forze residue, Giuseppe dormiva qualche ora per essere in forze. Lui parlava. Io registravo, intervenendo ogni tanto per rilanciare la conversazione. Interrompevo quando lo vedevo stanco. “Non sai quale dono mi fai.” Erano le sue parole di commiato, sull’uscio di casa. Alla presenza della sorella Delia, che lo assisteva, una volta si era abbandonato alla fantasia di poter vincere la malattia che inesorabilmente lo consumava. Quel pomeriggio avevamo riso molto. Non erano le risate fragorose di un tempo. Giuseppe non ne aveva più la forza. Dopo quelle parole di speranza, Giuseppe aveva ripreso in mano un suo libro di poesie. Ne lesse alcune. […] Tornò a chiedermi del Bund, il movimento per l’autonomia culturale e nazionale ebraica nei territori dell’Impero zarista. Della sua gloriosa e tragica storia. Discutemmo del sionismo e delle sue realizzazioni. Parlammo dei sogni che avevano animato il socialismo e della tragica deriva della storia russa e sovietica. Poi parlammo delle speranze che avevano animato gli accordi di Oslo e dell’angosciosa prospettiva di una nuova, e più temibile conflagrazione bellica nel Vicino Oriente. […]
Tra gli autori preferiti, un posto speciale lo avevano nelle nostre conversazioni Babel ed Esenin. Per me era una lettura di pelle, l’incontro con le ansie prodotte dalla fine di un mondo e un inizio incerto e carico di angoscia. L’immagine dell’orologio che scandisce la fine di un mondo ci accompagnava nelle nostre conversazioni di fronte ad una nave che salpava dal porto. Giuseppe sapeva quanto intenso fosse il mio legame col mare e con le navi che salpano. Per anni avevo sognato di trovarmi in una nave che mi portasse lontano dal mio paese di nascita. Le mie storie famigliari erano piene di racconti dei parenti salpati per Israele dopo i pogrom del 45 e del ’48, di mio padre che li accompagnava al porto con la promessa di raggiungerli, di mia madre che durante i preparativi del pasto sabbatico, cantava inni nuziali e di gioia, salvo poi piangere amaramente l’assenza della madre, dei fratelli e dei tanti parenti lontani. Poi il pogrom, all’indomani dello scoppio della guerra del giugno ’67. Infine l’arrivo in Italia. Un cambiamento radicale di prospettive che mi rendeva famigliari le immagini del figlio del rabbino morente dell’Armata a cavallo di Babel e quella dell’orologio di Esenin, non a caso ripresa da Primo Levi in Se non ora quando? Un altro autore era invece Chagall. In quelle nostre conversazioni, ero praticamente il solo a parlare, ad istituire nessi ideali ed emotivi fra le tele chagalliane e i versi di Esenin. “Devi tradurre Esenin”, gli ripetevo … “In quei versi è racchiusa l’angoscia di un intero mondo che sta per scomparire, e lo sa”. “I versi di Esenin e la tela di Chagall”, ripetevo di fronte a un mare, che nei giorni limpidi mostrava le coste balcaniche e in quelli più cupi ridestava in me la nostalgia per la “Terra dei Padri”, dove vivevano i miei parenti, fuggiti dalla Libia trent’anni prima – parlano da uno stesso luogo”.
Giuseppe era la persona giusta per tradurre Esenin. Amava la poesia, essendo lui stesso poeta. Conosceva il russo e aveva un gran rispetto per la metrica. La gioia fu grande quando anni dopo con il sorriso sulle labbra mi disse: “Ciapa”. Era il dattiloscritto di una prima traduzione delle poesie che avevano così lungamente occupato le nostre conversazioni. L’armata a cavallo, avrebbe dovuto essere il passo successivo. Il tempo purtroppo non fu amico. [… ]

((testo letto per commemorare il primo anno dalla sua morte nell’ottobre del 1997 e apparso in Giuseppe Paolo Samonà, “Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, Il Cubo, 2017)

David Meghnagi, psicoanalista, Università Roma Tre

(30 agosto 2017)