Le particelle elementari

torino vercelliContinua l’idiozia della rimozione delle statue nel nome di una riscrittura del passato attraverso la distruzione dei suoi segni. Ora è il momento, parrebbe, delle statue che raffigurano Colombo. Rimuovere implica in questo caso non certo fare i conti al presente con ciò che ci rimane di quello che è stato, assumendocene quindi anche eventuali responsabilità, ma riconoscersi in una sorta di suo festoso e demenziale rifiuto. La rimozione, più che mai, assume in questo caso il significato (e i contenuti) di un agire ai limiti del lucido delirio. Un agire che sta diventando sindromico e pandemico, al pari di una patologia che va diffondendosi come modalità – prima ancora che contenuto – con la quale rapportarsi al tempo trascorso. Dove a contare non è neanche più il bisogno di ribaltare i simboli che di (e da) esso ci sono tramandati (laddove peraltro valgono più i significati che noi oggi gli conferiamo che non quelli che in origine potevano essergli attribuiti). A fare premio su tutto è infatti il convincimento che la storia sia un vero e proprio bricolage, di cui si possono prendere singoli elementi a piacimento, rileggendoli secondo le convenienze (e gli umori) del momento. Non c’è alcun vincolo di coerenza in questo modo di fare. In altre parole, più che “revisionismo”, in quanto lettura alternativa dei trascorsi, sopravanza una vocazione egolatrica (ben presente nel modo di essere della “gente”, di cui i populismi sono un calco efficace), dove tutto deve aderire alle istanze di un io prepotente, infantiloide e assolutista. Più che un disegno politico, quindi, si è semmai in presenza di un ulteriore segno dello sfaldamento dell’agire politico mascherato come orgogliosa richiesta di concentrare su di sé l’attenzione altrui. Il tutto, come più volte ci è capitato di affermare anche in queste note, infarcito e poi ancora condito con l’ideologia del vittimismo. Se il principio di maggioranza, sancito dai diritti, viene meno, agli individui rimane il lamento delle minoranze all’eterna richiesta non solo di un riconoscimento pubblico ma anche di un risarcimento permanente. Si tratta di una falsa dialettica sociale. Non è il pluralismo delle identità e delle memorie quello che va così affermandosi bensì l’enfasi insopportabile dei particolarismi. Qualcosa del tipo: io conto a prescindere e tutto quello che non collima con la mia identità, ovvero con il mio modo di propormi, va eliminato. Il fondamentalismo, a partire da quello religioso, che è una variante dell’ossessione per l’identità nella sua più devastante visione totalitaria e assolutista, è in piena sintonia con questa impostazione. E si incontra con un’oramai antica ossessione, che arriva dagli Stati Uniti e dai paesi anglosassoni, prendendo poi piede anche in Europa, quella del “politicamente corretto”, che si traduce una serie di interdizioni civili, linguistiche, che fingendo di riconoscere la rilevanza delle minoranze in realtà escludono il principio della possibilità di una ragionevole discussione nella maggioranza. Una discussione pluralista. Lo fanno, quindi, creando vere e proprie zone d’interdizione nella sfera della comunicazione: parole che si fanno proibite poiché censurate, come se il non pronunciarle fosse il segno di una raggiunta maturità democratica. Anche questa è rimozione, del pari all’abbattimento delle statue. La concezione del tempo, nell’età della globalizzazione, aderisce a questo principio di “eterna sostituzione”. Nulla è fisso, tutto circola, ogni cosa si equivale e quindi tutto diventa intercambiabile. Ma molto, ovvero tutto quel che non piace perché non gratifica o non risponde ai propri impulsi, va rimosso, quindi negato. L’ipernazionalismo è un valido veicolo di questa visione regressiva (nel senso quasi del ritorno ad una età prepuberale) ed egocentrica delle relazioni sociali come, in immediato riflesso, di quelle personali con il passato. Non a caso ogni nazionalismo è sempre una riscrittura magico-demenziale dei trascorsi, che fa precipitare l’uomo nella capricciosa infanzia del suo pensiero. È un falso affratellarsi, fingendo un abbraccio collettivo quando invece si tratta di una stretta mortale. Nel nome di un “bene comune”, si stritolano e si disintegrano i diritti condivisi. Un bel passo all’indietro, non per conoscere il passato (completamente rimosso, a questo punto) ma per riviverlo come fardello.

Claudio Vercelli

(3 settembre 2017)