Identità – Scholem, due vite attraverso il sionismo

scholemGeorge Prochnik / STRANGER IN A STRANGE LAND / Other Press

Gershom (nato Gerhard) Scholem fu un filosofo e teologo israeliano, di origine tedesca ed emigrato in Palestina nel 1923 all’età di 25 anni, studioso del misticismo della Qabbalah e figura guida del sionismo, cioè del movimento che a partire dalla fine dell’Ottocento propugnò la nascita di uno stato ebraico in Terrasanta e quindi la fine di un esilio durato due millenni. In Scholem i due temi si congiungevano in modo inestricabile: il riscatto del suo popolo doveva avere come premessa un riappropriarsi della tradizione in tutta la sua integrità, che evitasse un approccio puramente razionale (riconoscendo il ruolo di elementi emotivi e visionari) e una deriva universalista e cosmopolita (calandosi nel percorso concreto della storia ebraica). Quello auspicato da Scholem era un rinnovamento innanzitutto spirituale, basato sull’attenzione alla specificità di testi, luoghi ed eventi, che da tale attenzione e specificità facesse scaturire «un linguaggio capace insieme di ripudiare la violenza che inghiottiva l’Europa e di catalizzare soluzioni per i mali sociali del continente che risuonassero al di là del problema ebraico»e indicasse la strada di una serena convivenza fra ebrei e palestinesi. «Una rivoluzione strettamente politica», peraltro, come quella in cui credevano il fratello Werner, membro del Partito comunista e ucciso dai nazisti a Buchenwald, e in modo più astratto e ambiguo l’amico Walter Benjamin, «non avrebbe mai prodotto una società giusta perché poteva solo sostituire un potere terreno con un altro». Le citazioni sono tratte da Stranger in a Strange Land (un senso possibile, sebbene non l’unico, per il nome Gershom che Scholem assunse), di George Prochnik. Un libro deliberatamente in bilico tra generi letterari diversi: biografia e autobiografia, studio di un sistema di pensiero e identificazione empatica con un personaggio. Prochnik tentò di fare carriera universitaria, ma la sua tesi fu un fallimento: «Quel che avevo scritto» dichiarò il suo relatore «non aveva la voce adatta per il lavoro accademico. Dovevo ricominciare da capo». Invece di seguire il consiglio, spese anni difficili, psicologicamente e finanziariamente, cercando la sua voce altrove, e la trovò infine nell’immersione totale in autori (prima Stefan Zweig, ora Scholem) nei quali riflettere sé stesso. I capitoli di Stranger in a Strange Land hanno, con poche eccezioni, la medesima struttura. Prima viene narrato un periodo della vita di Scholem e vengono analizzati suoi scritti; poi si passa alla vita di Prochnik. I parallelismi sono notevoli. Entrambi provengono da famiglie assimilazioniste che guardano alla religione con distaccata ironia; entrambi sono tornati con vigore a Dio in giovane età; entrambi sono emigrati in Palestina colmi di nobili ideali ed entrambi sono rimasti delusi. Qui le analogie si fermano. Pur sempre legato a cause progressiste (dopo la guerra del 1967, firmò un appello per l’immediata restituzione dei territori della Cisgiordania), Scholem fu assorbito dalla spaventosa urgenza dell’Olocausto e non si preoccupò più (disse nel 1946 a Hannah Arendt, dalla quale si dissociò dopo la pubblicazione di La banalità del male) se gli altri lo giudicavano un reazionario. Non lo era, anche se lo diventarono molti dei suoi studenti (e i tre a lui più vicini si suicidarono), ma Prochnik considera la sua posizione al riguardo «piena di incoerenze». Lo stesso Prochnik, per parte sua, non esita a difendere la propria coerenza con parole nette e taglienti. Di Benjamin Netanyahu, che irrompe sulla scena pubblica all’epoca dell’assassinio di Yitzhak Rabin, dice che «è un politico del tipo più pericoloso» perché «ha il coraggio della sua mancanza di convinzioni». Di Israele, dice che «è uno Stato autodistruttivo» e, quasi in chiusura, s’interroga angosciato su quale senso possano avere oggi gli scritti di Scholem, quando «gli ebrei non sono in esilio ma mantengono in esilio un altro popolo». Nel frattempo, ha abbandonato Gerusalemme, e con essa il sogno di rinascita che Scholem gli aveva ispirato, anche se ciò gli è costato il suo matrimonio, ed è tornato a essere un americano, che pubblica libri premiati e scrive per il «New York Times» e «The New Yorker». Nelle ultime pagine, Prochnik si rivolge alle tendenze utopiche e messianiche di Scholem per lasciare comunque un messaggio di speranza. Se la componente irrazionale del pensare e dell’agire umano deve avere il suo peso, e se in passato quel che sembrava irragionevole è talvolta accaduto, perché escludere che accada ancora? È un modo come un altro per assolvere il compito retorico che ogni libro deve affrontare nel finale; ma è anche un’indicazione del limite che incontra un’opera come questa, pur con tutto il suo fascino. In Scholem Prochnik cerca non Scholem ma sé stesso, e fino in fondo si sforza di spremerne un senso con cui lui (Prochnik) possa riconciliarsi. Il che, in definitiva, è un torto fatto a Scholem, alla specificità storica della sua vita.

Ermanno Bencivenga, Sole 24 Ore Domenica, 3 settembre 2017