Il mio Hashomer Hazair
Mariana Temido, segretaria generale del movimento giovanile Hashomer Hazair, mi ha contattato qualche tempo fa dal Brasile. Sta scrivendo un libro sulla donna nel movimento giovanile e mi ha chiesto di raccontare la mia esperienza.
Sono stata molto felice perché il periodo della mia vita trascorso in Lungotevere Sanzio 14, tra i locali del ken nei sotterranei e il Collegio Rabbinico all’ultimo piano, è stato imprescindibile dal resto della mia vita. Entrai nel ken dell’Hashomer Hazair a Roma, subito dopo il mio Bat Mizva, per caso. Dovevo chiamare mio fratello. Avevo 12 anni e lui ne aveva 9. A quei tempi ero un tipo solitario e selettivo. Avevo due buone amiche con le quali condividevo segreti e pensieri. Avevo molti cugini e una discreta sicurezza in me stessa dovuta al fatto che sapevo cantare, danzare, recitare ed ero una brava alunna quindi ero spesso scelta per partecipare agli spettacoli della scuola Vittorio Polacco e della Comunità ebraica. Ma ero molto cosciente del fatto che essere nata “femmina” mi relegava a una posizione di secondo piano nel quadro familiare.
Quel sabato pomeriggio cambiò praticamente il corso della mia vita. Entrai timidamente nel corridoio che conduceva al grande salone. Ragazzi di tutte le età si rincorrevano, gridavano, ridevano e si spingevano per arrivare al mifkad. Fui afferrata per un braccio: “Ehi! Perché non vai con la tua kvuzà? Sbrigati!” Guardai inorridita questo ragazzo sorridente che ancora mi stringeva il braccio. “No, no, sono solo venuta a chiamare mio fratello!!!!” “Ma dai! Resta, quanti anni hai? Ecco, quella dovrebbe essere la tua Kvuzà, sono i Haluzim. Io sono Dancik, il tuo madrich!” Avrei voluto sparire… ma rimasi. E tornai anche il sabato successivo. Mi abituai abbastanza presto a quel fantasmagorico caos. Imparai a dare la mano ai ragazzi quando si facevano le danze israeliane dopo il Mifkad. Imparai a conoscere Byalik e Mordechai Anilewitch e Hanna Senesh e Haviva Reik divennero le mie eroine. Poi un giorno fui scelta per danzare “El ginat Egoz”, dal Cantico dei Cantici, in un grande evento dell’Adei-Wizo e da allora divenni l’organizzatrice ufficiale degli eventi del ken e iniziammo a collaborare con il Keren Kayemet, Keren Hayesod e le altre istituzioni ebraiche con coreografie di danze israeliane, spettacoli e raccolte di fondi per Israele. A 14 anni entrai a far parte del Collegio Rabbinico sotto l’egida del Rabbino Elio Toaff. Ero l’unica ragazza del corso nel quale studiavano ragazzi che sarebbero diventati in futuro Rabbini Capo di Padova, Verona, Milano, Venezia. Ero veloce, avevo imparato a rispondere guardando il mio interlocutore negli occhi ma quando dovevo presentarmi all’esame di ammissione mi consigliarono di non rivelare al Rabbino Toaff che frequentavo l’Hashomer Hazair perché non mi avrebbero accettata. Era un movimento laico e per me era importantissimo continuare a studiare l’ebraico, la Torah, la Mishna e il Talmud! Ce la misi tutta e il mio esame fu perfetto…e appena finito dissi subito che ero all’HH e che stavo per diventare madrichà. Il Rabbino Capo apprezzò molto la mia sincerità e rimasi sia al collegio che al ken fino alla mia Alyiah e persino ricevetti la sua benedizione con tutto l’affetto.
Divenni madrichà. L’Hashomer crea un gruppo di giovani che segue un ideale, si ribella, cambia e si rinnova. Per realizzare il sogno si ha bisogno dell’insieme, del dibattito, del confronto, del lavoro fisico che unisce, che dà la forza di continuare per ottenere la gratificazione del successo comune. Eravamo diventanti in tanti e fu formata la kvuzà dei Maapilim sotto la guida di Orale. L’unione di Haluzim e Maapilim fu denominata Gdud Beit Alfa. Ognuno di noi divenne il tassello di un mosaico comune e parte di un disegno più grande. Il gruppo era la nuova famiglia. In un processo maieutico ci aiutammo l’un l’altro a scoprire talenti sconosciuti. Fummo travolti da uno spirito nuovo, magico, che risvegliava e accentuava il carisma personale sconosciuto, il senso della collettività, l’aiuto reciproco e l’affetto. Il Ken divenne casa, gioia e realizzazione. L’individuo ha bisogno di un gruppo e noi, attraverso la nostra kvuzà e l’attività in ken, scoprimmo la sensazione che si prova uscendo dalla “caverna platonica” (stralci da “Ebreo chi?” a cura di Ugo G. Pacifici Noia e Giorgio Pacifici, capitolo di Angelica E. Calo Livne “I valori ebraici umanistici del movimento giovanile Hashomer Hazair”), rimanemmo accecati dalla luce ma il sostegno dei haverim, dei madrichim e poi dei chanichim che diventano compagni di viaggio, testimoni e complici, crearono nuove energie. Si creò un nuovo linguaggio che ci era sconosciuto prima di allora, fatto di nuovi valori: le gite a piedi, la natura, i piani di lavoro, il machané, le notti in tenda. E qui iniziò il conflitto con la mia famiglia. Con mio padre soprattutto, sia la sua memoria benedetta. I miei genitori erano molto attivi nella Comunità ebraica, Babbo era attivo al Maccabi e al Keren Hayesod ed era stato uno dei fondatori della la difesa ebraica nelle scuole e nelle sinagoghe di Roma. Mamma era attivissima nella Wizo. Entrambi erano molto orgogliosi della mia collaborazione in tutte le istituzioni ebraiche e del fatto che venivo sempre scelta come rappresentante dei giovani ebrei d’Italia, come quando il Primo Ministro Golda Meir, venne in visita a Roma nel 1972. Ma improvvisamente si resero conto che l’ideale dell’Hashomer Hazair era l’Alyah: lasciare tutto per andare in Israele. Come avrebbero potuto permettere a una ragazzina di buona famiglia questo scandalo? Le discussioni iniziarono quando avevo 15 anni. “Da questo momento devi dimenticare il ken. Non posso lasciarti andare a un campeggio dove ragazzi e ragazze dormono insieme nella stessa tenda. Tu sei una signorina. Tuo fratello può fare ciò che desidera. Tu no. Tu non te lo puoi permettere!” disse mio padre categorico. Era la vigilia del Machane Kaitz. Sarebbe stato a Gragnola, in Toscana. Ero madricha’ degli Habbonim. Erano proprio tutto per me. Dopo il machané i bogrim sarebbero partiti per il Seminario europeo a Glaubenberg, in Svizzera. Fu una tragedia. Piansi per tre mesi di seguito. I miei genitori organizzarono un mega viaggio in Sicilia con tutta la famiglia e io trascorsi tutto il mese di Agosto con la faccia da Tisha’ BeAv.
Quando tornammo a Roma fui convocata alla Moezet Madrichim. Andai di nascosto (per la prima volta…e anche l’ultima della mia vita feci qualcosa di nascosto) perché mio padre mi aveva proibito di riavvicinarmi al Ken. Quando entrai nella mazkirut c’erano tutti i bogrim e i madrichim. Con un’espressione seria e severa mi dissero: “Purtroppo Edna hai dimostrato che hai altri interessi e che la kvuzza’ di cui sei madricha’ e i tuoi chaverim non sono abbastanza importanti per te. Hai preferito un viaggio comodo, da turista in Sicilia a un machane’ importante e a un seminario.” Sapevano tutti della mia lotta con i miei genitori, per “educarli” al nuovo linguaggio e ai nuovi valori che avevo acquisito entrando in ken. Avevo il cuore in frantumi e le lacrime che volevano esplodermi dagli occhi. Tutti mi guardavano in silenzio. Alcuni con gli occhi bassi. “Ci ho provato…ho provato a spiegare, a ribellarmi…” dissi tentando con tutte le forze di bloccare le lacrime. “Ci dispiace, la tua kvuzà degli Habbonim passerà a David Gerbi. Lui sarà il nuovo madrich. Tu, per ora, se tornerai in ken, potrai essere la responsabile della nikkayon…della pulizia.” La sichà si concluse. Corsi fuori. Erano le 17:10. Avevo appuntamento con mio padre alle 17:00 davanti al Tempio, dall’altra parte del Tevere. Su Ponte Garibaldi, il ponte che avrei dovuto attraversare a piedi, c’era una dimostrazione: studenti, polizia, grida….. ero disperata. Ricordo che pensai: ” Mi butto nel Tevere… oppure mi ucciderà mio padre quando scoprirà che sono venuta al ken! E non me ne importa nulla perché tanto senza la mia kvuzà e senza il ken non ho motivo di vivere…!” Avevo solo 15 anni. Vivevo per le peulot, per le sichot con i miei chanichim, per i pomeriggi di danze israeliane, per il pensiero che un giorno sarei andata a coronare il mio sogno in Israele. Alzai gli occhi e vidi mio padre fuori del ken. Aspettava in piedi accanto alla nostra Fiat. Una 124 coupé turchese. Il volto scuro… Fu li che ci fu l’esplosione: “Non mi importa più di nulla Babbo. Ho perso tutto: la mia kvuzza, i miei chaverim. La stima dei miei madrichim!!!” “Sali” mi disse calmo. Quando ci sedemmo, senza volgermi lo sguardo, fissando la strada davanti a noi disse: “Non hai perso niente! Sei riuscita a piegare me con la tua forza. Riuscirai ad ottenere qualunque cosa vorrai nella tua vita, puoi tornare in ken! “Ma babbo, non capisci? Al massimo potrò essere responsabile della pulizia!” “Farai bene anche quello. Non ti preoccupare!!! Entro un mese sarai di nuovo madrichà! Vedrai!” Tornai in ken e dopo un mese creai la Kvuza Yehuda (casi del destino…dopo qualche anno avrei compiuto la mia Alyah a Sasa e mi sarei innamorata del mio futuro sposo Yehuda). I miei genitori e molte delle famiglie dei miei chanichim, impararono il nuovo linguaggio fatto di sionismo, collettività, ideali. Nel 1975 compii la mia Aliya e da allora (a parte i quattro anni di shlichut dell’Hashomer Hazair a Roma) vivo al Kibbuz Sasa.
Sono grata al movimento giovanile dove la norma è la positività. Le dieci leggi dello Shomer, come quelle degli scout, i piani di lavoro, l’educazione informale creano l’Uomo e la Donna nuovi: in cammino parallelo, attenti alla sofferenza, all’ingiustizia, pronti a reagire e a contribuire con le proprie potenzialità. Il traguardo è il Bene, il coraggio, la laboriosità, l’amore per le creature e per la natura. Sono grata per i valori che erano allora e sono oggi la risposta ebraica positiva all’antisemitismo, al materialismo e al vuoto. L’Hashomer Hazair mi ha dato gli strumenti per creare una nuova realtà, per raggiungere il sogno. L’animo dello Shomer rimane impregnato per sempre di sensibilità verso l’altro, diviene parte e motore della comunità nella quale sceglie di vivere. L’educazione umanistica impartita nel movimento dà legittimità ad essere positivi, a desiderare una società più giusta e a sostenere i più deboli ed esorta all’iniziativa, alla curiosità e al coraggio di mettersi in gioco ed accogliere l’altro.
I valori acquisiti in gioventù mi danno l’energia per continuare a costruire una realtà fondata sull’educazione alla socialità, al lavoro, al dinamismo e all’operosità. Il mio Teatro multiculturale dell’Arcobaleno, la fondazione Beresheet LaShalom per educare al dialogo e i miei corsi di Educazione Umanistica alla Facoltà di pedagogia di Tel Hai sono in gran parte il patrimonio inestimabile che ho ricevuto in ken!
A proposito, nel 1977, travolti dall’entusiasmo e dalla loro determinazione a realizzare qualcosa per Israele, anche i miei genitori compirono la loro Aliyah. E ora riposano in pace ad Herzlya.
Yehuda e io abbiamo iniziato la nostra bella storia dopo la Shomria in Galilea nel 1976. I nostri quattro figli sono stati tutti in Shnat Sherut, un anno di volontariato all’Hashomer Hazair prima di arruolarsi in Zahal. E in kibbuz… dicono che abbiamo un’anima con la hulzà shomrit.
Angelica Edna Calò Livne