VERSO YOM KIPPUR “Questo comportamento non è da te!”

kippurMi sono spesso domandato quale sia sotto il profilo halakhico la relazione esistente fra anima e corpo: è assimilabile alla shuttafut (società) o alla shelichut (delega, procura)? La prima ipotesi mi viene suggerita da un passo del Talmud (Sanhedrin 91a-b) che riporta una discussione fra R. Yehudah ha-Nassì e Antonino. “Pensa a un re – disse il Rabbino all’Imperatore – che possiede un frutteto ricchissimo e lo affida a due custodi: uno claudicante e l’altro non vedente. Il primo dice al secondo: “Vedo nel frutteto dei frutti straordinari. Caricami sulle tue spalle che ce li mangiamo”. Così avvenne. Quando giunse il re e domandò loro conto della frutta mancante entrambi si schermirono. Il claudicante protestò: “Mi reputi in grado di camminare?” e il non vedente: “Forse che ho occhi per vedere?” Il re li caricò uno sull’altro e li giudicò insieme. Allo stesso modo il S.B. prende l’anima, la getta nel corpo e li giudica insieme. I soci svolgono un’azione comune compensando reciprocamente i limiti individuali che non li porrebbero in grado di agire da soli. Shuttafut implica dunque un’idea di corresponsabilità alla pari, nei successi come nei fallimenti. Ma noi esordiamo ogni mattina la Tefillah dicendo a D.: “L’anima che mi hai consegnato è pura” e non peccatrice! In effetti i Cabalisti hanno elaborato una teoria diversa. La Halakhah ammette il concetto di shelichut, per cui gli atti legali di una persona autorizzata da un’altra e agente al suo posto (shaliach) sono ritenuti effettivi come se fossero stati compiuti in persona dal delegante (meshalleach). I Maestri affermano in proposito che sheluchò shel adàm ke-motò (“l’incaricato di un’altra persona è come lui stesso” – Berakhot 34b). L’esempio classico è quello del padre che delega il mohel a circoncidere suo figlio, ancorché tale obbligo incomba su di lui. La shelichut comporta a questo punto una clausola particolare: il meshalleach non può abbandonare lo shaliach. Per sottolineare il fatto che il padre ha delegato il mohel non lo lascia solo, bensì sta al suo fianco mentre esercita la sua funzione. Analogamente l’anima si avvale del corpo per svolgere tutta una serie di compiti cui da sola non potrebbe assolvere nel mondo fisico. Essa non abbandona il corpo per tutta la durata della funzione e alla fine ne deriva il merito del loro compimento. Ma c’è un’altra clausola che caratterizza la shelichut. La relazione continua a sussistere solo se si tratta di meriti. Se invece lo shaliach si comporta male, vale il principio per cui “non esiste shelichut per una trasgressione” (Qiddushin 42b) e il rapporto si rescinde. Nel caso di un omicidio su commissione, per esempio, è giudicato e punito in Tribunale solo l’esecutore e non il mandante. Partiamo dal presupposto che l’esecutore ha autonomia di scelta. Il Talmud lo spiega in modo affascinante: “fra il Maestro e il discepolo a chi si presta ascolto?” Se il comando di D. e quello dell’uomo sono in contrasto, a chi si dà retta? Allo stesso modo se il corpo pecca, perché è nella sua natura finita di peccare, l’anima mantiene intatta la sua purezza. Ognuno di noi possiede un’interiorità e un’esteriorità. L’interiorità è sacra per definizione, mentre l’esteriorità è conseguenza delle sue azioni. Se ci comporteremo bene, si rivelerà in noi tutta la qedushah della nostra anima, alla quale il corpo si sarà adeguato. Se accadrà il contrario, l’anima rimarrà pura, mentre il corpo e la nostra vita materiale si allontaneranno dalla sua luce. Scrive Talelè Chayim che abbiamo a disposizione due forze per affrontare questa situazione. Una fa leva sulla nostra interiorità, la esalta, ci consola e ci sostiene ricordandoci quanto essa aneli a rimanere aderente al S.B. Le trasgressioni che abbiamo commesso, per quanto gravi, sono puramente esteriori: non la scalfiscono e noi rimaniamo “figli del S.D. vostro”, parte indelebile del patrimonio e del popolo di Israele a ogni effetto. C’è a questo punto il rischio che ci trinceriamo dietro la purezza incorruttibile della nostra anima per disinteressarci della corporeità. Ecco che arriva l’altra forza. Essa si concentra invece proprio sulla nostra componente esteriore, sulle azioni e i comportamenti piuttosto che sulle intenzioni. Essa ci sprona a riparare i danni affinché la nostra esteriorità torni a essere tutt’uno con l’interiorità. Eventualmente ci infligge punizioni e condanne affinché ci ravvediamo. Il tribunale non giudica la persona per l’anima che possiede, bensì per le sue azioni. Abbiamo bisogno di entrambe le prospettive. Se non ci fossero i giudici non correggeremmo i nostri errori. D’altronde in assenza di persone che ci incoraggiano richiamando i valori della nostra interiorità, potremmo finire per pensare che chi ha peccato è perduto definitivamente. Di più. Le due forze non sono separate fra loro. Il Giudizio (Din) può raggiungere il suo obiettivo solo se è radicato nell’Amore (Chessed, Rachamim) per la nostra interiorità. Quando la Torah ci comanda “Rimprovera il tuo prossimo, affinché non porti su di lui il peccato” (Wayqrà 19,17), significa non fargli sentire come se il peccato fosse parte integrante della sua personalità. Il rimprovero deve essere condotto in modo tale da portare il peccatore a pensare che la trasgressione è estranea al suo carattere e che non può essere oggetto del suo desiderio. Solo così egli si sentirà sospinto sulla via della riparazione e della Teshuvah. Shanah Tovah a tutti!

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, settembre 2017