STORIA Quando Hemingway si infatuò di Mussolini

fascismo mauro canaliMauro Canali / LA SCOPERTA DELL’ITALIA. IL FASCISMO RACCONTATO DAI CORRISPONDENTI AMERICANI / Marsilio

«È un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi». E ancora: «Non è il mostro che è stato dipinto». Già, proprio così: gran parte della stampa italiana lo ritrae come «un rinnegato socialista» ma, invece, guai a addossargli colpe non commesse: Benito Mussolini, è di lui che si parla, ha «avuto molte buone ragioni per lasciare il partito». È il giugno del 1922, quattro mesi prima della marcia su Roma, e sulle colonne di una testata d’oltreoceano, il Toronto Daily Star, appare in due puntate un lusinghiero ritratto del leader del fascismo: a vergarlo è il giovane Ernest Hemingway. Una quindicina di anni più tardi, dopo aver partecipato alla guerra di Spagna dalla parte delle milizie antifranchiste, il celebre narratore pronuncerà uno dei giudizi più forti sul fascismo: «Una menzogna detta da prepotenti». Nei primi Anni Venti, però, ebbe un breve periodo di sbandamento per il demagogo e sollevatore di folle. Hemingway, in viaggio in Italia con sua moglie Hadley, colse l’occasione per concordare un’intervista con Mussolini. Lo incontrò a Milano e ne fu irretito. Per lo scrittore che durante la Grande guerra si era presentato volontario per combattere in Italia ed era stato ferito, il futuro Duce era da considerarsi un vero patriota, l’unico politico in grado di capire che «i frutti della vittoria italiana nella prima guerra mondiale rischiavano di essere messi in pericolo dall’onda sovversiva». «Man of the People» Ma come era nata questa simpatia del grande scrittore antifascista per il capo delle squadracce in camicia nera? A riportare alla luce gli articoli di Hemingway è Mauro Canali nel bellissimo e documentato libro La scoperta dell’Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti americani (Marsilio, pp. 495, 20). Lo storico passa in rassegna la carta stampata statunitense dall’inizio del secolo alla Guerra fredda. E dimostra con dovizia di dati che, fino all’ascesa dell’altra dittatura, quella nazista, le pubblicazioni a stelle e strisce – dal Chicago Daily News al Chicago Tribune, dal Public Ledger di Filadelfia al New York Herald Tribune al New York Times – ospitarono assai di frequente interventi di giornalisti sostenitori del regime italiano. II tiranno veniva descritto come un condottiero abile e spregiudicato, che meritava l’applauso per le origini modeste, per le notevoli promesse di cambiamento fatte al popolo italiano e per la capacità di mettere a tacere i vecchi politicanti. Era considerato da cronisti e inviati americani un vero «Man of People». Furono dunque numerosi gli editorialisti d’oltreoceano che accettarono di farsi megafono e portavoce di questa raffigurazione del dittatore che prometteva «una seria riforma del capitalismo», come scrive Canali, «con l’aggiunta di elementi di umanitarismo sociale». Il dinamismo e l’improntitudine mussoliniana soggiogarono tra gli altri il notissimo Walter Lippmann che nel 1927, con The World, cercava di avere presa sulla comunità italoamericana. E ammaliarono Ida Tarbell, detta la «rossa radicale» per la vicinanza alle posizioni del movimento socialista americano, che nel 1926 si innamorò di Mussolini al punto di scrivere articoli senza mai accertare la veridicità delle informazioni fornitele dai funzionari del regime. La Tarbell rappresentò gli italiani in camicia nera come un popolo laborioso, felice e sempre in festa. I reportage di Anne O’Hare McCormick fecero gran scalpore sul supplemento domenicale del New York Times poiché definivano il fascismo come un movimento «spietato», ma giusta espressione della rivolta dei giovani «stanchi degli armeggi dei parlamenti, delle prudenti formule della ragion di Stato». Persino la marxista e femminista Louise Bryant, moglie di John Reed, fu attratta: dopo essere stata in Russia nei giorni della Rivoluzione d’Ottobre, scoprì nell’italiano di Predappio l’esponente di una nuova, intrigante «razza» politica. E per tanti altri corrispondenti, da Edgar Ansel Mowrer, prestigiosa firma del Chicago Daily News, ad Arnaldo Cortesi del New York Times, poi premio Pulitzer, a Floyd Gibbons del Chicago Tribune, la suggestione mussoliniana si mantenne intatta fino alla meta degli Anni Trenta. «II più grande bluff» Per Hemingway, invece, in assoluta controtendenza, il fascino del despota si esaurì rapidamente. Nel gennaio del 1923, resosi conto del grave errore in cui era incorso, stigmatizzerà Mussolini come «il più grande bluff d’Europa», denigrando pure le fattezze del «portatore di piccole idee espresse con grandi parole» e rilevando che «c’è qualcosa di sbagliato, anche istrionicamente, in un uomo che indossa ghette bianche assieme a una camicia nera». Lo irrise sostenendo che stava conducendo un gioco pericoloso «organizzando il patriottismo di una nazione senza essere sincero». Racconterà infine che, entrato nella stanza dove si teneva la conferenza, lo vide «seduto alla scrivania intento a leggere un libro con il famoso cipiglio sul volto». Sbirciando dietro le sue spalle si accorse che «si trattava di un dizionario francese-inglese tenuto a rovescio». Nonostante il carisma attribuito a Mussolini dai quotidiani e dai magazine americani, vi fu comunque anche un consistente numero di scrittori e giornalisti che si sottrasse alla fascinazione: Francis Scott Fitzgerald, per esempio, non si fece condizionare. ll romanziere, giunto a Roma nel 1924 con la consorte Zelda, fu colto da repulsione e disgusto di fronte alla situazione della capitale e della penisola. Definì l’Italia una terra morta e scrisse che «chiunque fosse illuso dallo pseudodinamismo sotto Mussolini è illuso dall’ultima spasmodica contrazione di un cadavere». Alla prova dei fatti «the Man of People» si stava mostrando un ciarlatano e il suo tanto esaltato appeal era inesistente.

Mirella Serri, La Stampa, 31 ottobre 2017