JUDAICA L’Angelo della Storia
Hannah Arendt e Walter Benjamin / L’ANGELO DELLA STORIA / Giuntina
Cocci, errori, ingenuità. E uno spiritello maligno, da favola per bambini, che ingarbuglia anche le situazioni più semplici. Nelle pagine, affettuose e appassionate, che Hannah Arendt dedica all’amico Walter Benjamin, questo grande protagonista intellettuale del Novecento risalta in tutta la sua umana inadeguatezza. Sempre pronto a fare la scelta sbagliata, incapace di sbarcare il lunario, nato ricco e ben presto soffocato da affanni economici, Benjamin sogna un’esistenza sicura senza poterla mai ottenere. A non voler capire la vita, si rischia di perderla. A voler perdere la Storia, si rischia di capirla. Sentirsi fuori posto, sempre e comunque, è del resto un destino comune a molti pensatori ebrei tedeschi durante i primi decenni del Novecento. Nati in una casa, quella della cultura germanica, in cui sono ormai ospiti sgraditi, non riescono a rimetter piede nel vecchio, venerabile edificio dell’ebraismo. «Vengo spinto dentro da un vento, e un’altra corrente mi butta fuori», scrive Kafka a proposito del suo conflittuale rapporto con la tradizione giudaica. Allo stesso modo, scompigliato dal vento dell’impossibilità, Benjamin s’impossessa del passato solo per contraddirlo, e contraddirsi. «Le citazioni nel mio lavoro sono come predoni, che per strada sbucano armati, pronti a rubare qualsiasi convinzione ai perdigiorno». La tradizione autorevole è scomparsa, è divenuta impraticabile, e la citazione spezza l’ordine, lo manda in frantumi. È da questa rovina, dallo zero di un paesaggio mentale decostruito, che potrebbe cominciare la rinascita. Ammassare libri, i più costosi, i più peregrini, i più belli, per ammucchiarli come pietre in una cava. Poi farli a pezzi, scomporli in cerca di un minuscolo, insostituibile brano. Dalle calde annotazioni della Arendt su Benjamin brilla più che mai il carattere poetico, romantico, inimitabile del “marxismo” benjaminiano. Proprio lui, che fin a quando gli possibile si ostina a vivere a carico del padre, e frequenta le case d’aste di libri rari come altri vanno al casinò, proprio questo rampollo della solida borghesia ebraica berlinese si affanna a smembrare teologia e letteratura per«scoprire, nell’analisi del piccolo elemento particolare, il cristallo dell’accadere totale». Il disagio biografico si sublima in diagonali di pensiero, in immagini a latere, in incisioni mentali raccolte sul retro del normale discorso storiografico. Con molta acutezza, Arendt coglie un tratto che accomuna Gershom Scholem, il grande storico del misticismo giudaico, anch’egli di origine berlinese, e Benjamin. Entrambi scelgono l’eccezione, si calano nel pozzo dell’esotismo intellettuale. È per questo che Scholem dedica il suo capolavoro a Shabbetai Zvi, il falso messia cabbalistico del Seicento, e Benjamin scrive un ostico libro sull’Origine del dramma barocco tedesco. Se si potesse attribuire loro una religione, sarebbe il culto dell’Inclassificabile, che, soprattutto in Benjamin, si trasforma in percorso biografico. «La fama postuma di Benjamin, annota Arendt, sembra dunque essere il destino degli inclassificabili, cioè di coloro lacui opera non rientra nell’ordine esistente e neppure anticipa un nuovo genere che si presterà a future classificazioni». Che poi, in un simile, eccentrico luogo del pensiero, Benjamin e Scholem si siano saputi sistemare a loro agio, fa parte delle meraviglie di quel secolo faticosissimo, stupefacente, terribile che è stato il Novecento.
Giulio Busi, Il Sole 24 Ore Domenica, 5 novembre 2017