Speranza
Al progetto “Educare sul confine”, patrocinato tra l’altro anche dall’UCEI, si è aggiunto, alla serie di workshop sull’educazione al dialogo, il nuovo corso: “Strumenti di ricarica dell’energia”. Così oltre all’incontro settimanale con i ragazzi del Teatro multiculturale di Beresheet LaShalom, ai corsi per studenti di pedagogia, psicologia e sociologia al Tel Hai College e per le insegnanti ebree ortodosse di Zfat il Ministero dell’Istruzione ha chiesto di aprire un nuovo corso al centro di Israele. Questa volta su un altro confine: quello palestinese. Ieri si è svolto il primo incontro. Avevo preparato tutto: musiche per riscaldare l’atmosfera, attività di ritmo, incroci danzanti….sono arrivati trenta insegnanti: quattro di Kalansua, quattro di Jaljulia, tre da Kafr Kassem e tre da Tira, le cittadine arabe tra le più politicamente “attive” sul bordo della Cisgiordania. Poi sono arrivati sei insegnanti, uomini con kippah e donne con il capo coperto e altri da Raanana, Lod, Kadima e da tutta l’area dello Sharon. Ho riguardato il programma e mi sono detta, mentre mi veniva da piangere, “E adesso che faccio per quattro ore?” Mi guardavano e aspettavano che facessi il miracolo: sono tutti insegnanti che lavorano con molti giovani a rischio. Educatori logorati dalla stanchezza, dalla tensione di dover affrontare un programma ministeriale che dovrebbe essere concepito per ragazzi che hanno molte capacità ma anche molti problemi ma che è lo stesso programma di tutti gli altri quindi crea sensi di frustrazione e rabbia. Gli alunni si annoiano, diventano inquieti, indisciplinati, trascorrono il tempo a chattare col cellulare, escono a fumare e non sempre solo sigarette. Guardo il gruppo che siede in silenzio, senza energie dopo otto ore di insegnamento, con gli occhi che raccontano le differenze ideologiche e la consapevolezza delle proprie impossibilità ad interagire tra uomini e donne a causa di impedimenti religiosi in un gruppo cosi misto. Serve sempre un piano B. e a volte bisogna sfoderarlo velocemente e se non c’è inventarselo. Dopo un giro di nomi e di conoscenza, chiedo di dividersi in gruppetti di quattro e di raccontare uno all’altro qualcosa di speciale che hanno compiuto nella propria vita, un fatto significativo che ricorderanno per sempre. L’aria si riempie di qualcosa di buono, di sereno, di ideali e aspirazioni comuni a tutti. Ora devono mostrare in modo creativo l’ideale comune. L’aria si riscalda, si ride si parla vivacemente e ci si emoziona l’uno dell’altro. Un gruppo mi chiama: sono tre insegnanti arabe e una ebrea. Quest’ultima ha gli occhi bassi. In malcelato imbarazzo. Una delle tre racconta: “Dieci anni fa ho fatto la tessera per donare i miei organi in caso di morte e mi hanno chiesto: e se i tuoi organi dovessero servire per un soldato? E veramente non sapevo cosa rispondere”. Mi rendo conto che questo sarà un corso difficile. Che solleverà interrogativi che provocheranno dolore. Le dico: “Il mio primo figlio , all’esercito, durante l’intifada, era infermiere. Avevano indicazioni molto chiare, che se, non sia mai, si fossero trovati in un evento terroristico e l’attentatore con la cintura esplosiva fosse stato ancora vivo si doveva soccorrere anche lui come gli altri…poi si sarebbe mandato in prigione…..”. La maestra araba, riflettendo e abbassando lo sguardo conclude la mia frase “E avrebbe ricevuto la sua punizione!”. “Esatto!”. rispondo – “Chi siamo noi per prendere la vita?”. Le insegnanti riprendono a lavorare e iniziano le rappresentazioni. La serata si conclude con una scena e una dichiarazione che suscita in tutti un respiro profondo: “Non mi importa a chi andrebbero i miei organi, siamo tutti esseri umani, non c’è differenza”. Sento che sarà un corso che richiede molto impegno, ma che racchiude anche altra speranza.
Edna Angelica Calò Livne