La lamentocrazia

torino vercelliLa non notizia è che una giovane signora inglese, tale Sarah Hall, madre di due bambini in età scolare, ha chiesto di rimuovere dal programma didattico, o comunque dall’uso da parte dell’istituto d’istruzione che suo figlio frequenta, la fiaba della «bella addormentata», uno dei temi più diffusi nella cultura popolare. Per le cronache, i motivi dell’amore tormentato e sofferto, come anche e soprattutto dell’evoluzione e delle trasformazioni del corpo, entrambi racchiusi nella parabola favolistica, furono raccolti in un’unica trama dall’italiano Giambattista Basile già nel XVII secolo e poi ripresi, in molteplici versioni, dai fratelli Grimm, da Charles Perrault, da Walt Disney, da Italo Calvino e da tanti altri ancora. Il grande psicoanalista e studioso Bruno Bettelheim, nel suo «The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tale», pubblicato più di quarant’anni fa, identificava il significato del testo, in tutte le sue molteplici versioni, nel tentativo di rendere conto ai bambini del percorso della vita come di un processo di discontinuità, dove il mutamento fisico è un fattore fondamentale nella costruzione della propria identità soggettiva. Anche attraverso il dolore e il rapporto non distruttivo con esso. Per la madre in questione, invece, le cose starebbero ben diversamente. Il motivo l’ha espresso pubblicamente con un tweet, affermando che «fino a quando verranno presentati questi testi nelle scuole non riusciremo mai a cambiare degli atteggiamenti che oggi sono ormai radicati nei comportamenti sessuali». In buona sostanza, il bacio che il principe offre alla sua bella, per l’appunto altrimenti addormentata per l’eternità, sarebbe un atto fisico sessuato, esercitato senza il di lei preventivo consenso. Da ciò, ossia dall’apposizione delle labbra maschili di un cavaliere, evidentemente sia erotomane che un poco necrofilo, a quelle femminili di una povera creatura indifesa e incosciente, deriverebbe l’ipotesi di una violenza predatoria, una sorta di stupro figurato. Ad onore del vero, se si dovesse adottare un tale criterio di interpretazione del gigantesco lascito favolistico, europeo e non, ben pochi dei racconti per bambini riuscirebbero a resistere alla prova della verifica, tra orrori assortiti, rimandi alla paura e alle deformità del “mostruoso” e così via. Inutile scomodare l’ampio repertorio di interpretazioni sui simbolismi, sulle metafore, sulle metonimie, sulle iperboli, sulle litoti, sulle sineddochi che costituiscono l’impianto dei significati compresi dentro la struttura retorica fiabesca per chi, invece, ha deciso che tutto quello che ci circonda è (o costituirebbe) una minaccia all’integrità propria. No, non si tratta di celia. Ancora solo pochi anni fa, la denuncia pubblica di quella madre sarebbe stata immediatamente archiviata. Così come il delirante dibattito sulla “libertà di vaccinazione” non avrebbe avuto nessun seguito. Oggi non è più così. Una comunità che si dipinge al pari di un’infinita collezione di traumatizzati, di vittime a prescindere, di offesi e di vilipesi da tutto, è una società infantiloide, composta di “richiedenti compensazione” a prescindere poiché impotenti per propria stessa volontà. Si tratta di una «cultura del piagnisteo» (Robert Hughes), dove non si rivendicano diritti universali, fruibili e fungibili per tutti, ma risarcimenti individuali (o di gruppo). Una miscela di narcisismo piagnone, di individualismo del puer aeternus (tale poiché incapace di vedere oltre il suo personale egotismo), di eternamente esterrefatti e di indignati in servizio permanente effettivo che non si assumono responsabilità ma chiedono solo complicità rispetto ai propri interessi. Esattamente ciò che serve per disgregare ciò che resta dell’azione collettiva, l’unica attraverso la quale si può contrattare una migliore posizione per sé (e per tutti gli altri). La saga del politicamente corretto, dove ci si raffigura come eterne vittime della «società» (a sua volta rappresentata come una fitta foresta di malizie, molestie, brutalità e cattiverie), e nella quale ogni parola, così come qualsiasi immagine, sono soggette ad un implacabile tribunale del giudizio che ha sostituito l’agire politico organizzato, è la tomba del liberalismo sociale. Se all’azione per la tutela delle minoranze e per la protezione dei diritti civili non si accompagna quella a favore dei diritti sociali e per la crescita culturale e civile delle maggioranze, le nozioni stesse di diritti e libertà sono destinate ad essere stravolte dal particolarismo piagnone di chi non si assume nessuna responsabilità, credendosi in una condizione creditoria pressoché inesauribile. Non è il confronto con le difficoltà della vita che fa dei futuri adulti degli individui deboli. Semmai è l’incapacità degli adulti di oggi nel riuscire a confrontarsi essi stessi con le discontinuità dell’esistenza a fare dei loro cuccioli d’uomo dei potenziali bambinetti perenni, soggiogati dallo scacco persistente di genitori che, nel pensarsi costantemente lesi da una qualche minaccia, non sanno più cosa sia l’investire nel presente per garantirsi e garantire un futuro. Anche e soprattutto ai propri figli. La libertà non è un involucro protettivo dentro il quale preservare l’individuo. È libero chi esplora, chi sperimenta, chi matura, non chi si cristallizza nella crisalide dell’offesa subita, soprattutto quando questa è solo una proiezione della propria inettitudine al vivere sociale.

Claudio Vercelli