L’Egitto di mio padre
Mezzo secolo fa, tra le 850mila e il milione di persone furono costrette a lasciare i propri paesi – dalla Libia all’Iraq, dall’Egitto all’Iran – per trovare rifugio in Israele, Europa e America. Di fronte, l’emergere negli anni Quaranta di un nazionalismo arabo sempre più insofferente alla sua minoranza ebraica. La nascita dello Stato d’Israele, simbolo della speranza per gli ebrei, acutizzò la rabbia e la violenza del mondo arabo e islamico nei loro confronti: confische, violenze, veri e propri pogrom, costrinsero migliaia di famiglie ad abbandonare le proprie case, lasciando in fretta e furia quanto costruito nel corso di generazioni. Il 30 novembre in Israele – ma non solo – ricorda questo dramma, celebrando il Giorno nazionale dei rifugiati ebrei dai paesi arabi e dall’Iran, istituito con legge della Knesset nel 2014. Un racconto personale di questo esodo è stato raccontato da Cecilia Nizza in occasione di un incontro organizzato al Museo ebraico di Bologna e dedicato al padre, Joseph Cohen Hemsi, nato ad Alessandria d’Egitto. Di seguito il testo del suo intervento in cui racconta le vicende del padre, intellettuale poliedrico che esercitò una notevole influenza nei circoli culturali di Alessandria negli Anni Trenta e Quaranta.
Sono profondamente commossa per l’iniziativa dell’amico Giuseppe Cecere e della direttrice del Museo Ebraico di Bologna, Vincenza Maugeri e li ringrazio di cuore per l’occasione che mi hanno offerto di parlare di mio padre. Ringrazio in particolare mia sorella Marta per il sostegno che mi ha dato condividendo con me i suoi ricordi, più precisi dei miei, che all’epoca avevo poco più di tre anni.
Troppo spesso noi figli scopriamo la storia dei nostri genitori quando è troppo tardi per interrogarli, per sentirla raccontare da loro. Allora, cerchiamo di ricostruirla sui frammenti di memoria, sul detto e sul non detto. Perché è anche la nostra storia, la nostra identità che cerchiamo.
Questo percorso l’ho iniziato in Israele, nel 2006, quando, su suggerimento di una amica, ho partecipato a un convegno a Haifa sugli ebrei d’Egitto. Ci sono andata così, per curiosità, con alcuni scritti di papà, e, sorprendentemente ho trovato persone che mi hanno accolto, ascoltato e soprattutto spinta a intraprendere questo percorso di memoria. Queste persone, a cui devo molto, sono Levana Zamir, presidente dell’Associazione degli Ebrei d’Egitto, con sede a Tel Aviv, e Yves Fedida, fondatore dell’Associazione Internazionale Nebi Daniel con sede a Parigi,
Se mio padre fosse qui, oggi, mi direbbe: “Cosa fai? Lascia stare! Non ne vale la pena.”
Ecco, questo era mio padre. Un uomo disincantato, schivo, che, al culmine della sua carriera e nel mezzo del camin di sua vita, è stato travolto dagli avvenimenti che hanno poi condizionato tutta la sua esistenza.
Nel 1947, infatti, raccoglie in un volume, che chiama significativamente Notre Combat (la nostra battaglia), articoli scritti tra il 1942 e il 1947. Il libro esce allo scoppio della prima guerra dei paesi arabi contro Israele. Viene requisito dalle autorità egiziane e papà, accusato di sionismo, internato nel campo di Abukir, con altri compagni di sventura.
Ecco come commenta lui stesso sul suo diario il suo internamento:
“Je suis interné à Aboukir et Notre Combat, ma brochure contre l’antisémitisme, saisie par les autorités égyptiennes.
Que les hommes sont bêtes, à mon esprit, quand il se prennent au sérieux.
Que je me sens ridicule! Servir de jouets à des enfants qui jouent à la guerre! Mais c’est là préciséement la vitalité de la race humaine. Les peuples ne doutent jamais de leur destin. Et ce destin est le fatidique anéantissement. Pourquoi le peuple égyptien ferait-il exception?”
L’unica copia, sopravvissuta alla distruzione ci accompagna nelle nostre peregrinazioni, fino alla nostra ultima destinazione, l’Italia, e rappresenterà per noi il segno tangibile del nostro esilio.
Ma non mancano le sorprese. Grazie all’amico Ariel Viterbo, bibliotecario alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, ho scoperto che lì ne esiste una seconda copia originale. Come ci sia arrivata, non lo saprò mai, ma è il segnale che Israele è per eccellenza il luogo della memoria.
Il riserbo di papà ha riguardato anche noi. Per favorire la nostra integrazione né lui né la mamma hanno mai voluto trasmetterci quella nostalgia che certamente provavano, e che potevamo però percepire nei sapori e negli aromi della cucina, nel lessico famigliare composto di espressioni in arabo e in judeo-spagnolo.
Ma, nonostante le difficoltà economiche, siamo cresciute in un ambiente culturale straordinario, abbiamo compiuto studi superiori e universitari. Dobbiamo a papà l’amore per la musica e la letteratura. Non potremo mai dimenticare, Marta e io (avevo 9 anni) quando ci portò, per due anni consecutivi, alla Scala a ascoltare Nathan Milstein nei concerti di Mendelson e Bruch.
Dobbiamo poi alla sua perseveranza il fatto di avere parlato, almeno in casa, francese. Il mio sradicamento dall’Egitto l’ho vissuto proprio in Italia, dove non era ben visto allora il bilinguismo e il fatto che venissimo dall’Egitto faceva di noi poco più che dei primitivi!
Ricordo che quando ero al liceo, lui mi seguiva nello studio del greco e poi, quando stesi la mia tesi laurea, mi aiutò a batterla a macchina e naturalmente a correggerla.
Un’infanzia difficile la sua, la morte prematura dei genitori, che lasciò orfani lui, lo zio Maurice, le zie Emilia e Linda, accuditi dalla mitica tante Rebecca, l’interruzione degli studi.
Eppure, nonostante tutto, nel 1929 inizia la sua carriera, che durerà fino al 1948, come redattore nel giornale francofono Le Journal d’Alexandrie et la Bourse Egyptienne, poi come segretario di redazione, e, infine come direttore responsabile.
I suoi interessi di giornalista sono la musica e la letteratura. In questa veste, papà frequenta i milieux intellettuali della città, partecipa alla vita sociale molto animata del paese. Conosce Edmond Jabes, lo scrittore legato agli ambienti surrealisti, amico di Max Jacob, che, nonostante la conversione al cattolicesimo, morirà a Drancy, in attesa della deportazione a Auschwitz, Georges Cattaui, studioso di Proust; intervista Luigi Piranddelello, due volte Bronislav Huberman, fondatore della Palestinian Philarmonic Orchestra, oggi Israeli Philarmonic Orchestra, in tournée in Egitto.
Nel 1952, una volta in Italia, firmerà su Combat, il giornale fondato durante la Resistenza, cui collaborerà anche Albert Camus, con lo pseudonimo Giuseppe Accaci, una serie di articoli dedicati all’Egitto, sotto il titolo “Fenêtre ouverte sur l’Égypte. Quello del 12 febbraio, intitolato Pour l’européen le pays fut longtemps celui de la “douceur de vivre” è un inno all’ Egitto felix degli anni 30 e 40, culla di una cultura cosmopolita, insomma “un vrai paradis”, come scrive.
Ma sono anche gli anni in cui si preparano i tragici avvenimenti di cui sappiamo e la sua posizione gli permette di seguirli e di commentarli in tempo reale.
Per preparare questo intervento, mi sono basata sulle numerose carte che papà ci ha lasciato in eredità sulle copie del Journal d’Alexandrie giunte fino a noi. Purtroppo ho solo alcune del 1940 e una del 28 maggio 1945. Ho cercato di trovarne altre senza successo alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Proverò all’Istituto Yad Ben Zvi che si occupa delle varie comunità che compongono il mosaico culturale di Israele.
sugli articoli di Combat, su quelli de Il Popolo, anch’essi scritti a Milano.
sui diari che iniziò a scrivere nel 1936 fino alla morte avvenuta 1982. Una data funesta, questa, perché, la sera dei funerali del piccolo Stefano Taché, rimasto ucciso nell’attentato alla sinagoga di Roma, fu colto da infarto. Ricoverato in ospedale, morirà un mese dopo. Ricordo ancora con quanta sofferenza parlava in quei giorni dell’attentato.
su un comunissimo quaderno, redatto nel campo di internamento, nel quale papà ha trascritto fedelmente le risposte dei suoi compagni di prigionia, accompagnate dalle sue chiose, alla domanda scherzosa: “Qual è la prima cosa che ci piacerebbe fare dopo la nostra liberazione?” Dalle risposte e dai commenti trapela la sensazione della fine di un’illusione, del sogno di un Aegyptus felix, liberale e cosmopolita, che doveva definitivamene infrangersi nel 1956 con la crisi di Suez. Il quaderno, grazie a Yves Fedida, fondatore dell’Associazione Nebi Daniel, che si occupa della salvaguardia del patrimonio lasciato in Egitto dagli ebrei, è consultabile su internet, alla voce Le prisonnier d’Aboukir. Come diceva il grande storico francese, Mark Bloch, assassinato dalla Gestapo nel 1944, la storia si fa anche con questo materiale.
Fin dalle prime pagine del suo diario, papà dimostra un’attenzione particolare al contesto politico internazionale. Mon emploi m’oblige à m’occuper de politique.
Il 7 gennaio 1936 parla di “notizie sempre più allarmanti” riguardo a voci su presunto materiale bellico britannico in arrivo in Egitto.
Sfogliando le pagine di quello che va dal 1936 al 1948, si intrecciano confessioni personali con commenti su quanto avviene nel mondo, ma anche riflessioni.
Il primo accenno al nazismo lo leggo nella pagina del 13 settembre 1938, quando riferisce degli strilloni che lo hanno svegliato alle 2 del mattino con l’edizione straordinaria dei giornali in cui veniva riportato il discorso di Hitler sulla Cecoslovacchia.
Su Hitler tornerà diverse volte, con giudizi molto pesanti. Così come su Mussolini, Interessante il suo giudizio negativo sulle sanzioni della Società delle Nazioni all’Italia per la campagna d’Etiopia, responsabili, a suo giudizio, dell’allineamento dell’Italia alla Germania nazista. In particolare accusa la Gran Bretagna di essere stata miope, ignorando (l’hydre nazie)i piani tedeschi che si stavano preparando già all’epoca della campagna d’Etiopia.
Alla pagina del 17 gennaio 1941, a proposito dell’aiuto dei tedeschi all’Italia, sconfitta nel deserto libico e in Albania, scrive che più che un aiuto è la premessa dell’occupazione del paese. Profezia poi realizzatasi, come sappiamo.
“Mais sûrement que, maintenant que Mussolini a appelé à son aide l’Allemagne, celle-ci qui est déjà installé en Itale, sera difficile à déloger”
Molto pregnante il commento che lascia papà. La sua domanda è
“quels enseignements utiles pourra donner à la seconde moitié du 20ème siècle la première moitié de ce siècle?” La risposta è nessuno “aucun” ripetuto due volte. La prima metà del 20 secolo, erede di valori che si credevano imperituri, quasi, aggiunge, che non dipendessero dall’uomo, ha visto questi valori fallire irrimediabilmente. E allora cosa lasceranno questi uomini ai loro figli? “Je suis curieux de savoir les valeurs morales que les peuples à venir édifieront en dogmes. Je suis presque certain que la science contribuera à leur édification. Quant à leur durée, je crois pouvoir dire, dès maintenant, que les hommes se trouveront toujours, comme ceux de 1940, devant des cas et des crises de conscience”.
Curiosamente papà non ha mai raccontato della Palestina, La Terre Sainte, come la chiama lui nella pagina del 26 marzo 1947. Nel 1941 infatti si rifugiò qui con la mamma, quando Rommel sembrava vincere a El Alamen e a Gerusalemme nacque mia sorella Martha. Ammette che raccontare di questo periodo della sua vita gli avrebbe richiesto uno sforzo intellettuale che non era in grado di sostenere.
“J’ai toujours reculé comme devant une tâche au dessus de mes forces”
Ma ciò non toglie che questo diario, o per meglio dire questo “journal intime” sia uno spazio nel quale papa riflette su se stesso, sulle sue ambizioni, sui suoi sogni, sull’amore, sulle sue aspirazioni letterarie, (Il suo sogno era scrivere. Ci ha lasciato dei racconti, uno dei quali ottenne anche un premio, dei saggi su diversi argomenti). E confesso che ho provato a volte un certo imbarazzo a violare la sua privacy. Ma anche rimpianto di non essermi confrontata con lui sulla letteratura francese, sulle correnti del 900 che lui dimostra di aver conosciuto bene, dal nouveau roman, all’assurdo camusiano.
Il ritratto che se ne ricava è di un uomo severo e critico con se stesso, propenso al pessimismo, tranne quando parla della mamma, l’amore della sua vita, e di noi figlie. Senza parlare delle nipotine e dei nipoti che ha avuto la gioia di poter coccolare. Non Sharon, che siede qui vicino a me, nata qualche mese dopo la sua morte, ma che, come dice lei stessa nell’introduzione alla ristampa che abbiamo curato del libro, gli deve di averle trasmesso la fierezza delle sue origini egiziane.
Quanto al suo legame con l’ebraismo, pur definendosi non praticante e non credente, esprime la fierezza di essere ebreo.
“Se nei prossimi cent’anni il mio libro non rivedrà la luce, bruciatelo insieme a tutti i miei scritti”.
Il primo riferimento al libro lo trovo nel diario alla data del 6 luglio 1947.
Ce livre sera composé des articles sur le judaïsme et sur l’antisémitisme, parus dans La Tribune Juive. Curieux mélange de foi sincère et de propagande. J’espère en tirer un bénéfice qui renflouera mes finances…” Povero papà!
Il filo conduttore è la constatazione che l’antisemitismo non solo è sopravvissuto al “flagello nazista”, ma sta prendendo piede nei paesi arabi, nell’imminenza della nascita dello Stato di Israele. Le ultime pagine del diario, datate 14 maggio 1948 sono dedicate proprio alla proclamazione dell’indipendenza dello Stato di Israele. Vi afferma che, se per gli ebrei, la rinascita di uno Stato ebraico, dopo 1900 anni dalla dispersione, costituisce un fatto di una rilevanza eccezionale, i paesi arabi circostanti non devono temerlo, ma trovare un’intesa libera dalle interferenze degli interessi delle grandi potenze. In particolare dedica un appassionato appello alla fraternità con l’Egitto, denunciando i gruppi estremisti, come i Fratelli Musulmani, che stanno minando un rapporto secolare di amicizia.
Da spirito razionale e illuminato quale era, papà invita gli ebrei di Palestina a vincere la battaglia non tanto con la spada quanto con l’idea.
Purtroppo sappiamo come è andata. E papà stesso tornerà, nei decenni successivi sulle sue posizioni così idealiste. Tuttavia questo suo appello ha lasciato un segno in me e, credo, anche in Marta, nel sentimento di affinità con gli arabi che incontro quotidianamente.
Nel concludere, voglio esprimere un’ultima considerazione. Ho lasciato l’Egitto a poco più di tre anni. Non ho quindi ricordi diretti di quegli anni. Ma sfogliare quelle carte è stato come andare alla ricerca di un tempo perduto che credevo non mi appartenesse.
Cecilia Nizza