Società – La svolta di Mann sulla scia di Eschilo

monitiThomas Mann / MONITI ALL’EUROPA / Mondadori

Si dice che l’epitaffio sulla tomba di Eschilo lo celebrasse perché aveva combattuto da valoroso a Maratona in difesa della patria e non menzionasse le sue tragedie, capolavori assoluti che, insieme a quelli degli altri tragici greci, sono scesi nel profondo del mito, dell’inconscio e del senso della vita. Da duemilacinquecento anni ricordiamo, studiamo e amiamo l’Orestea più che lo scudo imbracciato dal suo autore sul campo di battaglia, ma quell’epitaffio dice che la vita e la civiltà valgono più dell’arte e che quest’ultima è grande quando fa sentire a fondo tale verità, quando rimanda a qualcosa più in alto di essa. Pure Thomas Mann ha sentito di dover brandire la spada nella lotta politica, anche se la spada che sapeva maneggiare era la penna; lo ha fatto, ricorda Massimo Cacciari, controvoglia, costretto dai devastanti disastri dell’epoca che, dopo la fine dello sciagurato massacro della Prima guerra mondiale, vedeva germogliare e proliferare dovunque violenza, odio nazionale, sete di vendetta, razzismo, ideologie barbariche e totalitarie d’ogni genere, germi di quella che sarebbe presto stata la Seconda guerra mondiale, abominio dell’umanità e in particolare della Germania nazista. Mann è costretto a scoprire che la politica non è una sofisticazione intellettualistica e ideologica, astrattamente lontana dalla vita, bensì è la vita stessa e la sua tutela. Polis, la Città, la Sapeva esorcizzare la fredda ufficialità con l’ironia e un grande gusto del gioco comunità, vita condivisa e vite che si influenzano a vicenda; stare insieme, libertà o schiavitù, onore o indegnità, pane o fame, violenza o pace. II grande discorso Della Repubblica tedesca tenuto il 15 ottobre 1922 a Berlino — che apre questi Moniti all’Europa — è la sua dichiarazione di fede nella democrazia, contestata da numerosi studenti nazionalisti presenti in aula. Mann scopre che non vi è antitesi tra la poesia, la letteratura, l’arte e la democrazia, come aveva invece sostenuto nelle sue esorbitanti, ridondanti, talora sfasate ma geniali Considerazioni di un impolitico, gigantesco manifesto letterario del pensiero o meglio dell’atteggiamento reazionario. In quel libro, ricchissimo di demistificazioni della retorica progressista sempre più imperante, Mann aveva contrapposto il nazionalismo all’universalismo illuminista e democratico, la tradizione sorgiva del popolo tedesco alle astrazioni internazionaliste, lo scorrere della Vita aldilà o al di qua del bene e del male ai moralismi intellettualistici e benintenzionati, il canto popolare ai verbali delle sedute parlamentari e ai codicilli giuridici, il silenzio del bosco alle ciarliere e spesso cialtronesche assemblee. La Germania, nella cui vittoria nella Prima guerra mondiale egli aveva sperato, incarnava ai suoi occhi la Kultur, la cultura quale senso profondo e totale della vita, contrapposta alla Zivilisation che egli vedeva incarnata nello spirito francese razionalista e giacobino, mera ancorché sofisticata tecnica impersonale, buona forse per l’economia o i programmi di governo ma non per l’individuo, per la vita, per il senso del mondo. Cultura e civilizzazione, categorie vaghe e di per sé vacue ma riscattate, in quel loro voluminoso breviario, da folgoranti intuizioni sull’esistenza. Quando Mann tiene il suo discorso sulla Repubblica tedesca sono passati solo quattro anni dalle Considerazioni, che suonano come l’antitesi di quella celebrazione della democrazia che egli ora vede così fragile in Germania e in generale in Europa e che undici anni dopo sarà travolta dal più infame dei totalitarismi, il nazismo. Ma Thomas Mann, com’egli grida al pubblico che lo ascolta non senza aggressività, non revoca e non ritratta nulla. Semplicemente ha capito che la reazione nazionalista e razzista perverte e sfigura proprio quei valori vitali e poetici che egli aveva difeso e celebrato nelle Considerazioni, che il nazionalismo è il contrario e la parodia dello schietto amore della terra natia, che la mobilitazione totalitaria delle masse soffoca la libertà romantica del vagabondo e che gli inni sciovinisti sono la negazione dell’amato canto popolare tedesco. Il Reich hitleriano che trionferà pochi anni dopo sarà la distruzione dell’amata vecchia Germania, particolaristica e plurale, e della stessa Europa che egli, richiamandosi a Novalis e al suo geniale saggio poetico Cristianità ovvero Europa, vede come un’ecumene in cui il principio della regalità, del potere in qualche modo sacro ma solo perché legittimo, s’incarna nella varietà e nelle autonomie di una composita compagine «repubblicana». In una Germania nazionalista e totalitaria non c’è posto per la sua Lubecca anseatica né per le altre e altrettanto incantevoli realtà tedesche, diverse ma unite nel profondo. La letteratura, l’arte sono democratiche perché capaci di calarsi nella realtà, nella mente e nel cuore degli altri e la democrazia è a sua volta questa capacità poetica di ascoltare e far parlare l’altro, gli altri. Si ama il mare certo più delle elezioni ma si va a votare anche perché più persone possibili siano in grado di godere il mare se lo desiderano. L’adesione di Mann alla democrazia non è priva «di un certo impaccio», scrive Giorgio Napolitano nella sua Introduzione, un saggio fondamentale, classico e insieme di vibrante attualità nella pacata fermezza del suo linguaggio, in cui c’è una profonda affinità di pensiero e di stile con quello manniano; un’analoga forza, malinconica e tranquilla, di attraversare gli uragani della Storia vedendo pure cadere tante cose e fedi attivamente condivise e amate ma senza mai cedere al pathos del negativo, al disincanto pur profondamente avvertito, e conservando anche nelle tempeste più destabilizzanti quella signorilità che è dell’animo prima ancora che del comportamento, espressione di quel «rispetto» che per Kant è la necessaria premessa di ogni virtù. Napolitano pone l’accento sulla necessità, sentita da Mann, di confrontarsi con le proteste e le ragioni di chi, anche clamorosamente, lo attacca. Mann capisce che anche chi ragiona male, come farà poco dopo una grandissima parte della Germania, esprime (confusamente, anche barbaramente) esigenze e problemi reali cui bisogna dare risposta. Ed è questo che oggi l’Europa, l’Occidente, tutti dovrebbero voler e saper fare, rispetto al disastroso dilagare di populismi, di regressioni, di rigurgiti antidemocratici che, uniti all’insofferenza verso l’Unione Europea e alla debolezza di quest’ultima, potrebbero essere letali e devono essere combattuti ma non disprezzati o altezzosamente trascurati, come spesso fa l’opinione liberale e democratica, perché quelle reazioni nascono da problemi reali. Sotto questo aspetto le Considerazioni di un impolitico possono svolgere una grande funzione democratica anche e soprattutto oggi, in un momento in cui la democrazia sta degenerando e negandosi, a opera di tanti che la professano ripetendo con gregaria stupidità gli slogan del letale e imbecille politically correct, in una autoparodia che favorisce l’ascesa dei populismi. L’anarchico conservatore delle Considerazioni potrebbe realmente, come ha detto lo stesso Mann, mettersi al servizio del futuro e dunque del presente che lo prepara, con la sua irrisione della retorica benpensante che imperversa sui social destando anche negli animi più aperti la tentazione di diventare reazionari. Il vagabondo manniano delle Considerazioni può esorcizzare la rissosa retorica dei talk show che rischia di generare disgusto per la discussione, sale della democrazia. Niente come l’involontaria autoparodia può disgustare dalla democrazia ed è ciò che sta avvenendo. I saggi manniani raccolti nel volume sono, come dice il titolo, moniti all’Europa; anche e soprattutto per questo stanno a cuore a Napolitano, che nel suo saggio introduttivo parla con passione dell’Unione Europea e del ruolo che in essa deve avere e ha la Germania. Un ruolo centrale e oggi, per la prima volta dopo molti anni, minacciato anch’esso da una instabilità che sarebbe fatale per l’Europa e la sua unità, che purtroppo appare sempre più fragile, tentennante, anchilosata, timorosa di ogni netta decisione, ansiosa di unanimità, che non è espressione di democrazia, ma è la menzogna cara ai totalitarismi. Condivido la passione di Giorgio Napolitano per l’Europa, ma non la fiducia nella sua attuale realtà, anche se dichiarare fiducia aiuta già a rafforzarla. L’ impaccio che Napolitano coglie nella trasformazione di Mann da impolitico a politico ha forse pure un’altra ragione. Mann sembra avvertire che con questo passaggio la sua più alta stagione creativa si è conclusa — la stagione dei Buddenbrook, della Morte a Venezia, di Tonio Kröger, capolavori scritti senza programmi né intenzioni, quando narrava il dissolvimento di una famiglia borghese tedesca senza rendersi conto di narrare una fine ben più vasta, quella della classica borghesia europea, e scoprendo ciò che voleva scrivere solo scrivendo. Con la fine della vecchia Europa e la sua assunzione di responsabilità nella sciagurata nuova Europa cessa per lui la felice ingenuità epica. Certo, anche dopo egli scriverà grandi opere, ma imparagonabili alla felicità impolitica dei Buddenbrook opere sorrette e nutrite dalla riflessione, dalla tensione e dalla vocazione a mediare le contraddizioni; cosa altamente e preziosamente politica ma artisticamente impari alla poesia con cui, osservava Cesare Cases, le aveva rappresentate senza cercare di mediarle. Non a caso egli cita due volte l’invettiva di Strindberg contro Björnson: «Falso come un oratore ufficiale». Pericolo insito nelle orazioni democratiche, anche nella forbita ed equilibrata eleganza di alcune lezioni manniane e ignoto al vagabondo e perdigiorno impolitico. Ma Al mago» — come Mann era chiamato talora in famiglia — sapeva esorcizzare l’ufficialità e anche la propria talora quasi repulsiva freddezza (ad esempio verso i figli, in particolare verso l’infelice Klaus) con l’ironia, col gusto del gioco. II discorso Della Repubblica tedesca, dopotutto, viene tenuto in occasione del sessantesimo compleanno di Gerhart Hauptmann, il vigoroso scrittore naturalista e poi misticheggiante tedesco che più tardi si sarebbe seppur non gravemente compromesso col Terzo Reich e di cui lo stesso Mann — che in quel discorso ufficiale, rivolgendosi a lui che gli sta seduto di fronte, lo chiama «maestro» — traccia pochi anni dopo un impietoso, sarcastico e distruttivo ritratto nella Montagna magica. Pure nel suo atteggiamento verso la Germania dopo la fine della Seconda guerra mondiale — ma non del suo esilio — manca talora quella carità che ci dovrebbe essere anche e soprattutto quando si combatte senza quartiere il male, come sapeva il suo amato Dostoevskij.

Claudio Magris, Corriere della Sera, 5 dicembre 2017