Periscopio – Balfour

lucreziDi grande interesse si è dimostrata la tavola rotonda, organizzata dall’UCEI e dal Centro Bibliografico Tullia Zevi nei locali del Centro sul tema “1917-2017: Dichiarazione Balfour ed epopea di NILI”, alla quale hanno preso parte, oltre al sottoscritto, Massimo Lomonaco, Fiamma Nirenstein e Claudio Vercelli (con i saluti della Presidente dell’UCEI, Noemi Di Segni, e dell’ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs, moderatrice Raffella Di Castro). Un incontro che ha dato l’occasione di riflettere, cent’anni dopo, su quel “longus et unus annus” (per usare una famosa espressione di Tacito) che fu il 1917, e che parve davvero – mentre si consumava l’immane tragedia della Grande Guerra, destinata, com’è noto, ad anticiparne di poco un’altra, ancora più terribile – spezzare la storia, dividendola in un “prima” e un “dopo”.
Che significato ebbe, in quel contesto, la famosa Dichiarazione Balfour, generalmente considerata come il primo riconoscimento ufficiale, a livello politico e diplomatico, della legittimità del futuro Stato di Israele? Fu veramente, quella breve lettera, un titolo legittimante, una fonte di diritto e di sovranità? Come ho avuto modo di argomentare nel mio breve intervento, pur essendo tale Dichiarazione espressamente richiamata nella Dichiarazione di Indipendenza di Israele, sarebbe un errore vedere in essa la sorgente della legittimità di Israele, che è ben più antica, più profonda, più sostanziale. E, se anche volessimo ringraziare il Governo di sua Maestà per questo grazioso gesto del 1917, ciò non porta certo a dimenticare le sue successive, ben diverse scelte: l’infamia del Libro Bianco, i giovani partigiani ebrei impiccati nella fortezza di Acri (fu proprio con una di quelle corde maledette che, quindici anni dopo, fu giustiziato Eichmann), il sistematico appoggio, tra il ’45 e il ’48, alle masse arabe che martellavano il piccolo insediamento ebraico, l’astensione, nel novembre ’47, al voto sulla Risoluzione ONU sulla spartizione della Palestina. E molto altro ancora.
Ma, come abbiamo detto, l’incontro è servito anche a una riflessione sulla tragica e controversa vicenda di NILI, il piccolo gruppo di ebrei che, durante la guerra, contravvenendo le decisioni delle locali autorità ebraiche, provvisorie e semiclandestine, decisero di effettuare in proprio attività di spionaggio a favore dell’Impero Britannico, contro quello ottomano, di cui erano sudditi. Una vicenda (a cui Lomonaco ha dedicato un affascinante romanzo storico, intitolato, appunto, NILI, di cui domenica sono state recitate, da parte di alcuni bravissimi giovani attori, delle pagine) che richiama alcuni eterni interrogativi morali, vicini, tra l’altro, a quelli sollevati dalla disobbedienza di Antigone. Quando, in che condizioni, a che prezzo è consentito infrangere le leggi dello stato, per seguire quello che si ritiene un superiore imperativo etico? Chi decide cosa è giusto e cosa ingiusto?
Un caposaldo della legge ebraica, com’è noto, è quello sintetizzato nella frase “dinà demalchutà dinà”, “la legge dello stato è legge”. Gli ebrei devono rispettare le leggi del Paese che li ospita, non possono tradire. I fratelli Aaaron e Sara Aaronson, fondatori di NILI, invece, tradirono, e lo fecero due volte: disobbedendo alle direttive delle autorità ebraiche, e tramando contro quella che era pur sempre, almeno formalmente, la loro patria, l’impero ottomano, dando un rilevante contributo alla sua sconfitta militare. Disobbedirono alle leggi e alle autorità, per obbedire alla propria coscienza, che li spingeva a intervenire in quel modo per salvare gli ebrei turchi da quello che si annunciava, dopo il genocidio armeno, come il loro nuovo, imminente sterminio.
Fecero bene? fecero male? Ognuno può dare, secondo coscienza, il proprio giudizio. A me pare solo opportuno ricordare che Antigone, nello scegliere di seguire i suoi “àgrafoi nòmoi”, le sue leggi interiori non scritte, contrarie alle leggi scritte di Creonte, non disconosce il valore di queste, e non ritiene ingiusta la morte che le viene riservata per la sua disobbedienza. Antigone aveva ragione, ma la legge di Tebe restava valida, e reclamava pur sempre obbedienza, esigendo sanzione per la sua violazione. E il significato ultimo della vicenda NILI, il suo tragico fascino e la sua perenne attualità, in fondo, mi sembrano risiedere nel dramma, antico ed eterno, e destinato, in determinate circostanze, a sempre riproporsi, della solitudine dell’individuo di fronte alla propria coscienza: “dinà demalchutà dinà”. Ma il “nefesh”, l’anima, non abità lì.

Francesco Lucrezi, storico

(6 dicembre 2017)