Società – Occidentali e jihadiste

E. Benslama, F. Khosrokhavar / Le jihadisme des femmes. Pourquoi ont-elles choisi Daech? / Seuil

Davanti a giovani donne occidentali che sono fuggite dai loro paesi per recarsi nei luoghi del sedicente califfato islamico – raggiungendo il numero, non piccolo, di circa cinquecento e che quindi non si sono accontentate di convertirsi all’islam, ma ne hanno abbracciato le diramazioni più radicali, proprio quelle che, ai nostri occhi, umiliano e soffocano la libertà femminile, noi rimaniamo senza parole. Provano ad analizzare questa situazione un sociologo esperto della questione islamica come Farhad Khosrokhavar, insieme al psicanalista Fethi Benslama. La prima osservazione è che queste giovani sono mosse da una visione romantica dell’amore, da un desiderio di esotismo e di fuga, dalla volontà di affermare la loro identità femminile divenendo, pur se molto giovani, spose e madri. A questo si aggiunge la speranza di un impegno umanitario in situazioni di sofferenza. Ai loro occhi il combattente del califfato diventa il marito ideale, capace di restaurare l’immagine della mascolinità che le ha deluse in occidente. Credono così, in sostanza, di poter sfuggire alla modernità, della quale subiscono l’instabilità e la provvisorietà che le getta in una situazione di angoscia e di incertezza. Nel totale vuoto ideologico, credono di trovare ideali per cui morire, certezze per cui vivere. Gli autori sottolineano come il matrimonio di queste giovani donne, pur basato sulla tradizione, sia di fatto moderno. Le famiglie infatti non sono coinvolte, perché la supervisione del nuovo legame non è più compito della comunità né della famiglia, ma dello stato. In queste scelte estreme gli autori vedono emergere come protagoniste una nuova generazione di donne che non crede più nel femminismo, ma che «cerca di affermarsi attraverso “prerogative identitarie”, cioè essere madri, allevare figli, dedicarsi alla sororità di gruppi esclusivamente femminili in cui si discutono affari di donne escludendo gli uomini». Donne per le quali la partecipazione degli uomini ai lavori femminili diventa una antipatica intrusione. Dicono «il mio corpo mi appartiene» rovesciando lo slogan femminista, facendo capire che il femminismo le ha spossessate del loro corpo, riducendole a un essere sociale che rivendica l’eguaglianza con l’uomo. La libertà per loro è diventata «un peso o un senso di vuoto». Nell’islam ritrovano il senso della femminilità, cioè una garanzia di identità forte. Un’identità che non ha bisogno di essere ricercata né rivendicata, perché è posta in un sistema di riferimenti stabili, preziosa perché nascosta, proibita, sacra. All’interno della cultura islamista, il corpo della donna – intorno al quale si è aperta la frattura decisiva con la cultura occidentale – è «una fonte pericolosa di incredulità contro la quale solo il tabù può lottare, senza altro fondamento che il tabù stesso». Queste donne, che sperimentano la morte del marito in battaglia, e spesso si risposano più volte, sempre con combattenti, si rifugiano in un mondo in cui l’islam dovrebbe trascendere gli antagonismi che lacerano il mondo moderno, fra l’individuo e la collettività, fra l’uomo e la donna, fra l’ideale e il reale. Una fuga in un mondo autoritario nel quale paradossalmente cercano la pace.

Lucetta Scaraffia, Il Sole 24 Ore Domenica, 17 dicembre 2017