Machshevet Israel – I cristalli puri di Robert Cover

Potremmo immaginare, si interroga Robert M. Cover (1983), un Nomos completamente autoevidente, ossia un testo normativo che non necessiti di interpretazione alcuna al fine di comprendere come ci venga prescritto di agire? Un testo normativo di tale tipo sarebbe costituito “da cristalli totalmente puri” e si caratterizzerebbe per una “chiarezza abbagliante”, priva di ombre e sfumature. Tale unità del significato di un testo normativo, continua il giurista e storico del diritto, può sopravvivere solo per un istante e tale istante è in se stesso “puramente illusorio”. Non solo perché presto un filosofo “sfiderebbe l’identificazione” di tale visione con la verità. Bensì, e soprattutto, perché a questo testo fanno riferimento esseri umani in carne e ossa i quali presto inizieranno a dividersi sul significato da attribuire ad alcune delle sue prescrizioni o, ad un altro livello, sulle prescrizioni medesime. Così il testo normativo, nell’analisi di Cover sempre intrecciato (in modo esplicito o meno) a elementi narrativi, è come un “DNA legale” da cui, in virtù di un processo di “mitosi giuridica” [juridical mitosis], crescono differenti interpretazioni, significati e norme. Tale processo può avvenire all’interno di una stessa “comunità nomica”, fintanto che questa sia in grado di sopportare un determinato grado di variabilità interna, oppure spingersi ai suoi confini sino a produrre scissioni e nascite di nuove comunità. È questo “il problema della molteplicità del significato”. Ancorché problematica la disputa e divisione, mahloket, è stata assimilata dalla Tradizione (Elu veElu divre Elohim haiim) che ne ha fatto, in particolare negli esponenti del modus operandi di Beit Hillel (che, in quanto “umili”, “facevano precedere l’opinione di Beit Shammai alla loro”, Eruvin 13b) un elemento di forza, costitutivo dell’ebraismo stesso. Tuttavia la disputa, si diceva, può spingersi al confine della comunità nomica. Alcune dinamiche dell’ebraismo sono esemplificative. Vi sono sette “insulari” – per riprendere il lessico di Cover – come fu per gli esseni; sette che si spingono ai confini e ne fuoriescono, come nel caso dei (primi) cristiani e sette “redentrici” che chiedono trasformazioni radicali della propria comunità portandosi, in quanto eterodosse, ai limiti della stessa – come nel caso dei seguaci di Shabtai Zevi, prima della sua conversione. Si potrebbe distinguere, pensando al Wittgenstein de La Certezza (1969) tra la variabilità e il cambiamento di singole proposizioni che ha luogo all’interno di una forma di vita [Lebensforme], e quel fondamento costituito dall’agire e credere condiviso la cui messa in discussione passa per una vera e propria conversione. Le tesi di Cover forniscono un’occasione per riflettere sul rapporto intercorrente tra significato del testo e prassi – ermeneutica e sociale. Riconoscendo che in luogo di un cristallino testo si ha a che fare con un “DNA normativo” abbiamo l’occasione di ripensare il rapporto tra scrittura e oralità ossia, nella cornice della Tradizione, tra Torà SheBiKtav e Torà SheBeAl Pe. Come scrive Josef Faur (1993) l’ermeneutica in ambito ebraico “non è platonica” (si avvicinerebbe se mai, continua il rabbino e filosofo, all’approccio stoico) in quanto non ricerca il disvelamento [aletheia] di forme ideali. Il che non implica l’accostamento a forme di decostruzionismo o di scetticismo. Piuttosto è un modo differente di intendere, e vivere, la certezza, ossia l’unità di senso dell’Insegnamento e l’unità concreta del popolo ebraico.

Cosimo Nicolini Coen